lunedì 29 aprile 2013

Il testo della presentazione del libro "Pensieri, parole e omissioni in terra dannunziana" a cura di Giovanni D'Alessandro

Condividiamo, con piacere, il testo della presentazione del libro di Massimo Santilli "Pensieri, parole e omissioni in terra dannunziana" a cura dello scrittore e giornalista Giovanni d'Alessandro, che si è tenuta a Pescara presso la Libreria Libernauta, il 12 aprile scorso:
Con questa snella e bella silloge poetica appena edita da Tracce, Pensieri, parole e omissioni in terra dannunziana, Massimo Santilli si conferma appassionato valorizzatore della cultura abruzzese, che lo vede attivo non solo per il museo di Gagliano Aterno (Aq), ma anche su altri versanti con tutta una serie di iniziative e di apprezzati lavori, ad esempio in materia saggistica, come il recente Passi di pace e di perdono, edito nel 2012 e dedicato agli itinerari e luoghi francescani nella valle subequana e nelle aree dei parchi nazionali, sulle orme del poverello d’Assisi.
In questo suo secondo libro di poesia, edito da poche settimane, Massimo offre un contributo dannunziano alla sua terra, all’Abruzzo e anche ad atmosfere non prettamente (anche se prevalentemente) abruzzesi che fanno capo al Vate; e, al contempo, offre anche un contributo indipendente dalla poetica e dalla produzione di Gabriele D’Annunzio, a cominciare dal titolo, forse in voluta antifrasi col Vate giacché ricalca un passaggio dell’atto di contrizione cristiano - e tanto contrizione quanto cristianesimo erano assai lontani D’annunzio - omettendo di necessità, tra i pensieri, le parole e le omissioni in terra dannunziana, le… opere! dannunziane, che avrebbero alquanto fuorviato il lettore.
Ubaldo Giacomucci, il quale ha curato il lavoro, ha ben scritto nella Postfazione: “L’Autore, con uno stile coerente e ben definito, ha strutturato questa silloge di poesia tra la ricerca stilistica e il diario esistenziale, per non lasciare concessioni alla poesia d’occasione, ma allo stesso tempio anche per lasciare spazio al monologo interiore (...). Il laboratorio tecnico e linguistico dannunziano, come ben sanno i cultori del Vate, è estremamente ricco e fastoso: lo stile elevato e nobile, il lessico aulico ed arcaico. La struttura di tutto il primo D’Annunzio eccede in magniloquenza ed oratoria, ma malgrado ciò raggiunge a volte risultati musicalissimi, aurei, di penetrante intensità”. Concordiamo con Ubaldo Giacomucci, aggiungendo che queste da ultimo indicate sono le tracce del genio, anche quando il Vate pratica modi e forme ancora ottocentesche, e anzi di una ben radicata, specifica tradizione ottocentesca (il Naturalismo); genio che poi porterà D’Annunzio anche a diversificare completamente tale sua iniziale impostazione formale – “propendendo verso una duplicità inscindibile tra cultura italiana e Mitteleuropea”. Giusto puntare l’attenzione sulla cultura mitteleuropea: cioè sull’adesione, in tempi in cui se ne parla molto per il centocinquantenario portato dal 2013, anche a correnti filosofiche come il superomismo di Nietzsche, il vitalismo, l’irrazionalismo ecc.
Parentesi: oggi si discute tanto se fosse fascista o no D’Annunzio (e transeat: qualcosa di cui parlare bisogna inventarsi per i 150 anni), ma la questione sembra non solo mal posta bensì avvilente nella sua formulazione, dal momento che la gravitazione di buona parte della poetica dannunziana nel superomismo nicciano è ben più importante dei suoi rapporti con Mussolini, della sua adesione al fascismo del quale fu un’icona (scomoda ma coltivata); di come l’impresa di Fiume e della velleitaria Repubblica del Quarnaro fossero guardate in un certo modo dal regime; o ancora del dorato esilio a Gardone Riviera, al Vittoriale degli italiani, nell’ultima parte della vita, segnata da un declino fisico e anche psichico. Tutto ciò fa parte della mitologia di D’Annunzio e della sua vita ed è ampiamente documentato. Sono le precedenti matrici culturali a intrigare di più e quelle restano abbastanza inesplorate, a parte alcuni saggi anche un po’ datati. Cioè D’Annunzio è un autore su cui si è scritto moltissimo nell’ottica, biografica o biografistica, del personaggio, come fiumi d’inchiostro sono stati versati per la sua produzione, ma sulla cui formazione molto si è sorvolato.
Lasciamo stare tuttavia Gabriele D’Annunzio e parliamo di Massimo Santilli.
E poniamoci subito una domanda: al di là della ricorrenza dannunziana rappresentata dal 2013, al di là del titolo, al di là della stessa poesia introduttiva che apre la raccolta con un tributo al Vate, al di là della sincera coltivazione e della profonda conoscenza della poesia di D’Annunzio che l’Autore ha, cosa c’è di dannunziano in questo libro?
Rispondiamo subito: molto. Come molta è pure la parte, tanto nell’ispirazione, quanto nel sentire poeticamente e nella resa, indipendente invece dal Vate.
Fermiamoci alle adesioni a D’Annunzio, leggiamo insieme l’attacco della poesia d’apertura, dedicata a lui: “Parola che tramuta/ ma non trattiene,/poesia che arde/ ma non consuma,/ genio che comprende/ ma non contiene. /Canto che non c’è/eppur ci muove”.
E qui cominciamo a familiarizzarci con la bravura di Massimo, con la sua abilità poetica.
Nelle allitterazioni, ad esempio, che giocano tra le parole che abbiamo appena ascoltato “Parola che tramuta/ ma non trattiene”; nelle allusioni: poesia che arde/ma non consuma” è un riferimento al roveto ardente che non consuma il cespuglio, del Vecchio Testamento, qui svolto però in forma poetica, sfrondato di ogni spiritualità relativa alla rivelazione della presenza divina, nel roveto che arde senza consumarsi; nell’ipertesto “canto che non c’è/ eppur ci muove”, dove l’empirismo di Galileo Galilei, si sfronda anch’esso, come la precedente citazione religiosa, qui di scientificità, per farsi motus non celeste, bensì interiore, poetico.
Anche se andiamo a leggere i versi successivi, troviamo un Santilli affrancato da D’Annunzio, ad esempio nella asciuttezza, lontana tanto dalla magniloquenza ricordata da Giacomucci e dalla evocatività, quanto dal panismo, prediletti dal poeta di Pescara.
Entriamo in grandi descrizioni della natura e delle città (Massimo è un raffinato descrittore di città e soprattutto di natura), con icone che sanno di Montale, più moderne quindi di D’Annunzio, non solo nella forma e nel ritmo (il verso lungo, a volte articolato senza cesure in più frasi amato da Santilli, o la dissoluzione metrica, accanto alla coltivazione di settenari, novenari, endecasillabi), ma anche nel farsi veicolatore oggettivo, usando il correlativo oggettivo, di tutto un contesto amorosamente percorso e reso dalle parole: “Pini d’Africa come verdi ombrelli coprono i tetti di città d’argilla/ e più in là l’olio e il vino si coltivano sui colli antichi del domani” (notiamo la maestria di questi ossimori che l’Autore spesso usa “i colli antichi del domani.”) “Cemento di ruggine e chiese di fango scolpito, /alcove di fiume sazie di vita (cioè: letti, dove il letto diventa complice alcova) e colline circondate dal mare dove riaffiorano castelli e fortezze inespugnate./ Fra scogli di lava, una stella risale e riconquista la luce rubatale dal giorno”.
C’è modernità in questi versi.
Si coglie la lezione novecentesca di Montale e di Sinisgalli, di Rebora e di Sereni, più che quella di D’Annunzio, in essi. Si intravvede l’alcova poetica (volendo riprendere quel verso appena letto: “alcove di fiume sazie di vita”) di Vittorio Clemente e di Ottaviano Giannangeli, o del compianto Vittorio Monaco, nella descrizione dell’Abruzzo. Si legga una delle poesie più belle, intitolata, appunto, Ai pittori peligni.
Gustiamone la maestria dell’attacco e dell’incedere. “Non riesco più a fermare il mare,/forse perché i miei sogni si dirigono ora a Nord/mentre l’acqua va i ogni direzione, ma, poeta tra i pittori,/ conosco e riconosco il mio se, nel vostro/ e m’incammino imprudente a cercar poesie/salvato dal colore. /Voglio innamorarmi di un’età perduta/ o della vostra primavera incompiuta,/o della vostra insanabile follia./Vorrei amare l’odio che non m’appartiene/e cogliere un fiore senza reciderlo affinché io sia sempre più un po’ tutti voi./Annunciando il Natale ripudiato,/mani e visi compiaciuti si compongono fieri sopra il verbo verginale che n on sa ancora d’essere eterno./Sento l’odore dell’aria e della pietra di sera;/il profumo d’un’acqua sgorgante che lava ogni inganno dell’uomo a se stesso./Ma sono solo un poeta e sconfino in questo sipario senza/scene trovandomi a danzare con alcuni angeli azzurri al/preludio di un’arte redenta che volge al suo istante divino./In questa notte in cui ho almeno qualcosa a cui pensare/mi sfiorano i sussurri di baci sbagliati/e si susseguono memorie di effimeri ricordi./In questa notte in cui ho almeno qualcuno da sognare/mi ritrovo nel frastuono del mio silenzio/e dentro lo schiamazzo della vita,/fra uno sguardo semplice/e il sorriso complice dei miei fratelli sconosciuti./Note profumate di gelso risuonano nell’aria estiva di un pomeriggio bagnato da una pioggia ora sottile./Le ansie di bambini vestiti a vesta si declinano in un canto/,che trascende la partitura, giuda teda una bacchetta sinuosa e agitata come per magia./ La musica si muove,/ci scorre dentro e culmina, mentre tutto diviene poesia”
Quanta finezza in questo divenire poesia.
Quanta coltivata bellezza nelle allitterazioni e assonanze dei primi versi: “m’incammino imprudente a cercar poesie/salvato dal colore”; “il verbo verginale che non sa ancora d’essere eterno”.
Quanta bellezza negli asciutti endecasillabi, che punteggiano il verso libero, talvolta col contrappunto delle rime. “Voglio innamorarmi di un’età perduta/ della vostra primavera incompiuta,/ della vostra insanabile follia”.
Quanta sciolta preziosità di ossimori: “Vorrei amare l’odio che non m’appartiene”; il “frastuono del mio silenzio” ; i “fratelli sconosciuti”. 
Quanta felicità nelle metafore; “il profumo d’un’acqua sgorgante che lava ogni inganno dell’uomo a se stesso./Ma sono solo un poeta e sconfino in questo sipario senza/scene trovandomi a danzare con alcuni angeli azzurri al/preludio di un’arte redenta” (ancora le allitterazioni) “che volge al suo istante divino”.
Quanta musicalità nel verso e controverso: “In questa notte in cui ho almeno qualcosa a cui pensare/mi sfiorano i sussurri di baci sbagliati/e si susseguono memorie di effimeri ricordi./In questa notte in cui ho almeno qualcuno da sognare/mi ritrovo nel /e dentro lo schiamazzo della vita,/fra uno sguardo semplice/e il sorriso complice”. La bacchetta del direttore d’orchestra di un canto senza partitura diventa bacchetta magica “sinuosa e agitata come per magia./ La musica si muove,/ci scorre dentro e culmina, mentre tutto diviene poesia”.
Ma se questa è l’indipendenza, altre volte il tributo a D’Annunzio è indubitabile nella raccolta, pur se vissuto in forme moderne. Nel tema erotico, ad esempio, giacché questa è una poesia spesso a tematica erotica /”La tua pelle di nero velluto/il tuo corpo scolpito da un’arte eccelsa/le tue intime nudità/ e io rinascerei in te,/ nel miracolo di un amore infinitamente puro”; “Io m’incanto a guardarti/e m’inebrio di te”.
Ed è una corporeità che prende il sopravvento su altro, come in questa perla, di due versi consistenti in quattro parole, cariche di echi della classicità (“Non amatevi,/per amarvi”). Se volete che il desiderio esploda e affermi la sua presenza in voi, non amatevi: versi in cui c’è l’eco di Catullo ma anche più, forse, del nostro e suo compaesano Ovidio, nec tecum nec sine te vivere possum; e noi sappiamo che Massimo è autore di una prima raccolta di poesia pubblicata nel 2004, proprio col titolo: Segreti pensieri d’amore – Epigrammi in atmosfere ovidiane.
E altre volte ancora Massimo è esplicito nel suo tributo a D’Annunzio e al dannunzianesimo. Così nel riprendere immagini famose della poesia del Vate per riattualizzarle: “La notte era inquieta tra i pini salmastri/” (le tamerici salmastre) “e le forme scultoree di un corpo innocente, al crepuscolo superbe mostrasti. Tesi alla, luna il mio falce vibrante”/e, reciso il tuo stelo,/ ol colsi all’istante” (O falce di luna calante/ qual messe di sogni ondeggiante/ tu mieti quaggiù).
Concludo dicendo che Massimo Santilli è una voce rappresentativa della poesia della terra dannunziana e non solo dannunziana; anche di altre terre.
Noi speriamo che, dai vari versanti in cui è attivo, continui a darci dei lavori pregevoli che ci portino al riversarsi della sua poetica in poesia; alla fonte di questo - per usare un verso che apre la raccolta - divenire poesia della parola.

Giovanni D’Alessandro

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