lunedì 25 giugno 2012

"Vertigine d'acqua": una recensione a cura di Leandro Di Donato


Vertigine d’acqua” di Nicoletta Di Gregorio

Vertigine d’acqua, pubblicato nello scorso anno nella prestigiosa collana “I Cammei” si aggiunge ai tanti libri che lo hanno preceduto, dal primo Volo il tempo del 1979 a I segreti dell’ombracon prefazione di Márcia Théophilo, 1988, L’alba dell’invisibile, con prefazione di Maria Luisa Spaziani, 2001, Il cielo dissolve, prefazione di Dante Maffia, postfazione di Stefania Lubrani, 2004, Il respiro dell’ametista, presentazione di Walter Mauro, 2008. 
Queste citazioni costituiscono un elenco assolutamente parziale ed arbitrario, ma danno - credo - la misura di un impegno di scrittura - le prefazioni ne attestano l’autenticità del dettato e la sua qualità - che ha forgiato, poesia dopo poesia, pagina dopo pagina, il suo profilo e il timbro della sua voce. Nicoletta Di Gregorio ha costruito con i suoi libri, con le differenze e le coerenze che scandiscono la sua produzione, il suo paesaggio esistenziale ed emozionale, il suo album di stupori e scoperte, il catalogo delle scie tracciate e difese, di quelle perse e mai dimenticate, degli alfabeti di foglie e di paure. Il richiamo ai libri precedenti è necessario, credo, per capire i rimandi, i fili e gli echi che legano questa alle altre raccolte.
Vertigine d’acqua si avvale dell’introduzione di Tara Gandhi Bhattacharjee, nipote del grande Mahatma Gandhi, il padre della non violenza, che propone una chiave di lettura dell’opera di Nicoletta Di Gregorio che ci immette subito in una dimensione cosmica, in una dimensione cioè che pone la poesia al cospetto degli elementi fondamentali della vita e del mondo. La prefatrice osserva “ che la storia del mondo è la storia delle sue madri” e, in fondo, l’archetipo della Terra Madre è uno dei tanti fili che connettono culture diverse. Ma qui la poetessa propone itinerari che attingono a religiosità senza dogmi, a ricerche condotte senza mappe rassicuranti. L’esergo, che riporta i celebri versi del Cantico delle Creature di San Francesco dedicati a Sorella acqua, è in questo senso un indizio prezioso ma- se non bene inteso- anche fuorviante, perché la poesia di Di Gregorio, non è ascrivibile a contesti definiti, non corre sui binari del già noto, così come l’acqua non è l’elemento, materiale e simbolico, prevalente. Credo che l’attestazione più profonda e più autentica della poetica dell’Autrice che trova in questo libro una felice e feconda rappresentazione, sia quella racchiusa in un verso della poesia che apre la raccolta, “ nel fare antico della goccia che scava/ posseggo il timbro fragile/ che consola la deriva/ e frantuma ogni seduzione”. La poesia, come la goccia, ha il fare antico della ricerca che scava, che osa domande, che pone dubbi che aprono scenari immensi e precipitano in gorghi senza fine. 
La fatica della ricerca e il coraggio delle domande sono, per riprendere ancora un’immagine dell’Autrice, le pareti della forra entro cui scorre l’acqua della poesia.
Ed è in questo nucleo di fatica e di coraggio che risiede la possibilità di continuare la ricerca di senso, l’identificazione delle possibilità per nuovi passaggi che muove la poesia e modula la sua voce. E’ per svolgere questo filo, per indagare la condizione umana da un punto di vista diverso che la poetessa sceglie la postazione più difficile, la sola che può rispondere al “fiero richiamo dell’aquila/ e del falco al nido alto di cristallo”. Forse è solo da qui, dal nido alto di cristallo, che si possono cogliere con nitidezza le linee rotte e carsiche, la luce della scogliera e l’agglutinarsi dei dolori; forse è solo così che la poesia riesce a cogliere i segni sparsi e a rivelarne il disegno sotteso, a renderlo intellegibile a tutti.
“L’arte del vento” che a volte ha il respiro d’uragano, a volte quello di un soffio si fa ponte fra gli estremi, unisce le vele di terra e di cielo fino “all’estuario roccioso/tra due sé in dono/ eluvio serrato/ nel senso perso/ del divenire.”
Versi questi che rendono bene il respiro poetico di questo libro, il tentativo di rovesciare luoghi e sentimenti alla ricerca dell’ordito rivelatore, setacciando con gli occhi anfratti e golfi, gole e deserti, eleggendoli tutti a soggetti necessari e vitali del suo “paesaggio infinito del cuore”.
Ma è “alla porta degli uomini” che infine bussano tutte le domande, per accogliere “ciò che ci legittima /fratelli/nel brivido virtuoso/ del suono”.
Questo è allora lo spazio decisivo, dove “ si trasformano templi/ in gocce di grano/ e l’imbrunire staglia/tonde absidi cristiane/ scavo di umano splendore/ agli argini indivisi del sé”. Ma per conquistare questo spazio, per renderlo abitabile e per poterlo efficacemente difendere occorre farne innanzitutto la residenza della vertigine d’acqua.
A differenza di tutte le altre possibili forme d’acqua, la vertigine si coglie solo “in un giro di neve e di musica”, nella “memoria impigliata nei baci di seta”. Qui, solo qui si chiude il cerchio dello sguardo che partito dalle guglie accessibili solo alle aquile si unisce, a terra, al passo che conduce oltre lo spazio bianco delle attese. Qui “nel silenzio del vento/ come assenza di respiro/ che prorompe di senso/ le spire eterne dei giorni” la domanda che ha percorso lo spazio e solcato mari e calanchi trova la sua esatta metà, forse la sua risposta.


(Leandro Di Donato)

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