martedì 12 giugno 2012

VERTIGINE D'ACQUA di Nicoletta Di Gregorio: una recensione di Daniela Quieti


Vertigine d’acqua di Nicoletta Di Gregorio, introduzione di Tara Gandhi Bhattachatjee, ovvero il senso della vita etica e poetica in un ricamo lirico che l'autrice intesse mirabilmente, svelando e celando al contempo la sua interiorità e la visione del mondo. 
Edizioni Tracce, 2011
Poesia collana I Cammei
pp. 56 - € 11,00
ISBN 978-88-7433-798-9
I versi riverberano un variegato coacervo di emozioni alle quali solo la poesia sembra restituire fede e speranza, una “urgenza d’azzurro” che stenta a trovare approdo in questo tempo pervaso d’amarezza. Emerge, nell'alternanza struggente e mirabile di fratture e incontri, di slanci e rinunce, un’orditura d'amore ampio e profondo, pur se spesso ferito: “timbro fragile che consola la deriva/… luce che custodisce / in madreperla di linfa/ il crinale eroso”. Inquietudine e certezza nella stessa ispirazione, tuttavia affiora sempre lo stupore che, anche nell’intima e inesaudibile attesa di felicità, si possa ormeggiare a una “nuova aurora” in cui trovare risposte agli enigmi dell’esistenza, alla “sete/ limpida d’abbandono”. Non importa quanto sia ingannevole il mistero e aggressivo il dettaglio, nessuno deve essere contro l’altro, tutti i pensieri, le convinzioni e i valori, quindi la salvezza alla nostra mortalità sono in un cielo che ci “sovrasta in tenerezza” e “in respiro remoto/ tramuta l’essere in lampi/ di sé”.
Negli abissi di cielo” o in un suggestivo “moto d’onde”, l’autrice assolve dubbi insoluti, indaga e “oppone alla curva” apparenti varchi esistenziali mediante “una sfida possibile al ritorno”, rielabora “iscrizioni e segni” in un repertorio introspettivo di cadenze e immagini disegnate da sottese commozioni, trasfigurate da una simbologia alchemica di rituali partiture e tensioni allegoriche intense e raffinate. Un continuo scavo interiore a decifrare “l’origine e la vita”, dove l’esserci contemporaneo detiene le sciagure e le derive di sempre, cui solo una cristiana pietas può fare da contrappunto. Se siamo “angeli legati /ad appigli inesistenti”, la solitudine “ci legittima fratelli” in una metamorfosi estetica e creativa che invade con ritmo crescente ogni verso, come a voler rivelare la meraviglia dei segreti custoditi da migliaia di anni di silenzi e di parole. 
Un paesaggio d’anima emblematico, segnato da indifendibili tenerezze e da fatali insidie, si dipana in un codice lessicale quasi purificato da un sortilegio di parvenze e assonanze, nell’aspirazione di testimoniare l’infinito sulla composita finitezza degli esseri e delle cose, per salvarsi dall'indistinto caos ridisegnando forme ancestrali di grazia. Simmetrie di parole e cuore percorrono questo “poemetto”, tra ondulazioni cadenzate da chiarore e oscurità, dove un variegato insieme di immagini incalza vertiginosamente per offrirsi all’immensità sovrumana e al terrestre patimento. 
Nel labirintico groviglio dell’esistenza, quando tutti gli idoli che potrebbero salvarci saranno presumibilmente stati demoliti, come potremo superare il nostro destino? Partecipando al dolore e alle gioie del mondo nell’orizzonte di un pensiero allargato, in cui ogni vibrazione è lampo, rebus, sonorità, flusso d’onda che trascina fra albe luminose e minacciosi abissi, illuminazione dell’attimo salvifico nell’anelito di donare una nuova trascendenza alla nostra umanità con “uno sguardo altrove”.

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