giovedì 25 luglio 2013

Un euforico congedo: la recensione di Daniele Fioretti al saggio di Ugo Perolino

Condividiamo la recensione di Daniele Fioretti (Miami University) al saggio di Ugo Perolino "Un euforico congedo" (Edizioni Tracce 2012, Collana I Taccuini), pubblicata su Italica, la rivista dell'American Association of Teachers of Italian - che è possibile leggere sul sito "The free library".
"Alberto Arbasino è uno dei più noti esponenti della neoavanguardia italiana, celebre soprattutto per la sua produzione narrativa. Meno nota e meno studiata è però la sua opera di saggista e polemista. Il libro di Ugo Perolino affronta questo importante aspetto della produzione arbasiniana, a partire dalla cesura storico-politica rappresentata dal caso Moro. Proprio il trauma collettivo dovuto al sequestro e all'uccisione dello statista democristiano è stato una delle cause della svolta compiuta di Arbasino, ispirata alla volontà di lasciare non tanto un resoconto storico ma piuttosto un memoriale pubblico, un "montaggio di demenze e di deliri italiani". In questo stato (1978) presenta una struttura testuale ibrida in cui conversazioni, interviste e brani tratti dai giornali si mescolano in un impietoso collage il cui bersaglio, è inutile dirlo, è la società italiana. Questa scelta stilistica caratterizza buona parte della successiva produzione arbasiniana, da Fantasmi italiani (1977) fino a Paesaggi italiani con zombi (1998) e alla nuova edizione di In questo stato (2008). 
Perolino concentra la sua analisi sugli scritti arbasiniani relativi al caso Moro, istituendo un interessante confronto con L'affaire Moro di Leonardo Sciascia. Mentre lo scrittore siciliano ha interpretato la vicenda del politico democristiano come una sorta di dramma baro in cui il protagonista, attraverso le sue lettere, "ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire", Arbasino ha assunto una posizione ancora più polemica nei confronti di Moro. Tanto per fare un esempio, secondo Arbasino le lettere scritte dallo statista durante la prigionia mostrano non tanto vera angoscia e disperazione quanto "eminentemente meschinità, dispettosità, piccineria, cavillo e ripicca". 
Ma il discorso sul caso Moro si allarga e diventa giudizio complessivo sulla realtà italiana degli anni Settanta, tutto giocato, sottolinea giustamente Perolino, sul registro della "parodia comico-crudele". Un autore lombardo sbeffeggia e condanna la piccola borghesia che tenta di imporre i suoi modelli al proletariato, i giovani che fuggono dalla fabbrica alla ricerca del "posto fisso" impiegatizio, e mette sotto accusa il mito della centralità della classe operaia (il marxo-machismo). Davvero notevole è l'analisi che Perolino fa della nuova edizione di In questo Stato (2008). Grazie al suo paziente lavoro di collazione lo studioso individua nel testo una serie di varianti che operano su tre livelli: quello della "decifrabilità" (l'eliminazione di fatti e riferimenti non più rilevanti per il lettore odierno), quello della "espressività" (la riduzione del tasso di letterarietà del testo) e, soprattutto, quello dell'aggiornamento delle coordinate ideologiche, con un netto alleggerimento del proprio atteggiamento polemico verso la figura di Moro. 
Nel secondo capitolo, Kulturkritik e vaudeville, Perolino affronta il legame tra la scrittura di Arbasino e il postmoderno, individuando nella vicenda di Moro e nella morte di Enrico Berlinguer due "eventi-simulacro di spessore collettivo" che stabiliscono lo spazio temporale in cui la postmodernità si afferma in Italia come dottrina estetica. Lo studioso torna poi ad occuparsi di Moro, segnalando come in Arbasino, nel corso degli anni Settanta, prenda corpo un progetto di riscrittura, di storiografia "altra" dominata dalla "reversione del tragico nel comico, dell'allegoria nella farsa, della scrittura epistemica nel pastiche mimetico". Questa tendenza e riconfermata in Un Paese senza (1980) in cui Arbasino racconta di un'Italia sospesa tra progresso e regresso, segnata "da "Corsi e Ricorsi, Tragedie che si replicano come Farse e viceversa". Ma è soprattutto il tema generazionale a dominare il libro dello scrittore lombardo, che sente il bisogno, una volta archiviato il decennio di lotte studentesche 1968-1977, di sottolinearne contraddizioni e automatismi ideologici, nello sforzo di "decostruire le cattedrali ideologiche degli anni Settanta". Ma alla pulsione distruttiva delle ideologie "forti" fa anche da contraltare una spinta propositiva, che tende alla valorizzazione delle realtà locali e territoriali e che rifiuta il pragmatismo illuminista lombardo in favore della linea astratta dell'idealismo napoletano, anticipando cosi l'esplodere della "questione settentrionale." 
Il terzo capitolo si intitola Un euforico congedo. In esso Perolino prende in esame la produzione arbasiniana che va dal già citato Fantasmi italiani a Paesaggi italiani con zombi, sottolineando come in questi libri Arbasino si avvicini al modello di intellettuale critico e "luterano" rappresentato da Pasolini. Un forte punto di contatto tra i due scrittori e la condanna delle nuove generazioni, nate all'ombra del boom economico e perciò diversissime da quella di cui Arbasino fa parte. Più in generale, il bersaglio polemico dell'autore continua a essere l'Italia, paese incapace di qualunque vero progresso e che, di conseguenza, finisce per rappresentare non la modernità ma la sua caricatura: "la società italiana riproduce i suoi tratti più marcati nella dimensione squisitamente retorica del sapere intellettuale astratto, della parola che prolifera nel vuoto, nella privazione di ogni efficacia o riscontro pratico". 
Un altro ciclo della produzione pubblicistica arbasiniana si apre con La caduta dei tiranni (1990) e La vita bassa (2008), in cui l'autore si confronta con la cosiddetta seconda repubblica e con il berlusconismo. Il discorso di Arbasino fotografa una nuova Italia e un nuovo tipo di italiano, insofferente alle categorie politiche tradizionali ma sempre più implicato nella rete del consumo e diventato un soggetto profondamente contraddittorio: "conformisti trasgressivi, conservatori progressisti, reazionari irriverenti, populisti di élite". E' nei volti della gente dell'Agro Pontino che Arbasino nota appieno la differenza generazionale, là dove i vecchi sembrano Pietro Ingrao e i giovani si vestono e si atteggiano imitando i divi della televisione. 
In conclusione, Un euforico congedo è un libro molto interessante e ben costruito, che ci restituisce il punto di vista, insieme ironico e feroce, di un intellettuale lucido e controcorrente. Oggi Arbasino occupa forse nel panorama italiano un posto meno illustre di quanto gli competerebbe, probabilmente a causa della sua insofferenza a ogni mitologia di massa, a ogni quadro concettuale già stabilito a priori. Il merito di Ugo Perolino sta nel renderci l'autore nelle sue contraddizioni, espresse da una voce autoriale di volta in volta rabbiosa o ironica ma sempre, programmaticamente, fuori dal coro.

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