Condividiamo con i nostri lettori una prestigiosa recensione al libro del poeta e critico letterario Francesco Muzzioli "Verbigerazioni catamoderne" a cura di Mario Lunetta, pubblicata sulla rivista online del sindacato nazionale scrittori "Le reti di Dedalus" (anno VII - Estate 2012):
Allegorie e sarcasmi di un complesso pensiero-scrittura

Verbigerazioni catamoderne di Francesco Muzzioli, Con un Sussidiarietto di lettura di Marcello Carlino (Tracce Edizioni – Collana “Segni del suono” a cura di Anna Maria Giancarli, Pescara 2012, pp. 127, € 16,00) è uno di quei rari libri di poesia in cui l’autore esplicita una responsabilità assoluta, senza cautele o precauzioni. Un libro-intervento, quindi. Un discorso stratificato, a più moduli che si tengono con grande energia. Un’operazione non effusiva, e invece militante – come si sarebbe detto una volta, tutta concepita e realizzata dentro la dimensione della complessità: quindi, in netta e dura controtendenza vs la dominante mainstream della nostra cultura letteraria, che non si schioda da un’affatturata voga di semplificazioni, banalizzazioni, povertà di senso, e via dicendo.
Un titolo decisamente programmatico, che potrà magari apparire alquanto sibillino a chi è legato a titolazioni poetiche serene o inquietanti, ma sempre comunque ordinate entro la corsia del genere.
Lo Zingarelli definisce il lemma Verbigerazione una “Ripetizione stereotipata e senza senso di parole o frasi”. Bene. Vada pure per un sostantivo tanto inusitato. Ma lo choc non è qui; è semmai nell’aggettivo. Che vorrà mai dire catamoderne? ha tutto il diritto di chiedersi il lettore forse troppo fiducioso nella generosità dell’autore. La migliore indicazione che in questo caso l’ingeneroso autore dà al lettore è racchiusa in due paragrafi del da lui redatto Manifesto della catamodernità, che chiude il volume e al tempo stesso ne sigla perentoriamente le ragioni di fondo. All’ideologia della confusione grazie alla quale tutto è uguale a tutto e sono messi al bando ogni scissura critica, ogni dubbio, ogni considerazione dei fini, Muzzioli oppone quella che egli propone di chiamare, con un neologismo che si avvale della preposizione greca catà – la condizione catamoderna: “e non solo perché il cata – è il prefisso della catastrofe, nelle cui vicinanze ci dibattiamo. Anche perché il prefisso cata – indica una caduta verso il basso e quindi si attaglia alla fase di ‘basso Capitalismo’ (come si dice ‘basso Medio Evo’) in cui il nostro stesso continente sembra condannato a un inarrestabile declino. Cata – modernismo è lo sprofondare della modernità, delle sue utopie e delle sue conquiste, travolte nelle contrazioni spasmodiche di un’epoca che non sa più dove attaccarsi. Se, secondo Marx, nella modernità ‘tutto si dissolve nell’aria’, abbiamo l’impressione che, nella catamodernità, ‘tutto sia coperto dalla merda’. Ma la formula del catamoderno non contiene soltanto una diagnosi, impietosa e dura da accettare. Contiene anche, dall’altro lato e in qualche modo in contraddizione, anche un compito, un imperativo: essa indica la necessità di spingere a fondo il moderno. Di procedere cioè sul solco della modernità radicale e dell’oltranzismo avanguardistico, portandoli alle estreme conseguenze”.
Più chiari di così non si può essere: e tuttavia le proposizioni muzzioliane non implicano alcuna concessione a schematismi di comodo, perché agiscono all’interno di una dialettica complessa, che corre costantemente sul filo della contraddizione storica, politica, culturale. Nel tempo, e contro il tempo che non si può mettere tra parentesi, come invece insiste a fare la proliferante deriva di troppa produzione poetica dei nostri giorni, contenta di sé e del proprio effondersi subliminale e sublimato.
Almeno due sono gli elementi determinanti dell’intera ossatura del libro: 1) la suddivisione in quadri metateatrali allegorici, che tendono a spingere il testo fuori dello spazio-pagina, in uno spazio altro com’è quello dello straniamento spettacolare: da cui la molteplicità interconnessa sempre da scoprire fra scrittura letteraria e dimensione politica – perché anche ogni scrittura denominata creativa ha sempre, lo voglia o no l’autore, una sua politicità intrinseca; 2) il montaggio dei materiali che, pur nella loro natura eteroclita, risultano stretti in quella che è l’ottica della consapevolezza dell’autore.
Ed ecco allora che il libro, fin dalla sezione MITI ATEI ovvero AKHENATON/VANINI (in cui si mette al centro del discorso la parabola del faraone della XVIII dinastia e dell’eretico seicentesco Giulio Cesare Vanini), apre crudamente sul tema della mistificazione dell’identità e dei ruoli che soffoca il nuovo e il diverso, fin dai primordi del potere. A questi due macroexempla di cancellazione violenta il catamoderno poeta materialista, convinto che tuttavia “il riso sordo bolle”, e “far la morale nonconverte il male / forse l’humour è disinvestitore”, oppone l’universo sigillato di una clinica psichiatrica in cui due mitomani impersonano appunto il faraone colpito da una radicale damnatio memoriae e l’ateo pensatore pugliese bruciato vivo, siglando il tutto con uno Zipsonetto di frizzante sarcasmo, che si può ripetere al contrario. Muzzioli ara i suoi territori con una lama tagliente e inesausta. La metrica tradizionale (ma sempre de-celebrata: quindi segnata senza tregua da un timbro parodico) e il verso libero rompono perciò continuamente i loro assetti, e il gioco beffardo delle rime anche nella gabbia “gloriosa” dell’endecasillabo contribuisce a rovesciare instancabilmente il senso del dettato, la cui frontalità richiama la propria inversione sul filo della contraddizione attiva: non arrendersi mai, allora, perché “contraddizione si fa viva / il cambiamento è adesso”. In inconclusa conclusione, anche il delirio psichiatrico può funzionare da elemento straniante di contraddizione, in un mondo in cui “l’assurdo è dappertutto”.
Un poemetto di grande energia allegorica come La caccia è un altro dei fulcri ineliminabili di questa struttura mobile e ferrea. Tutto giocato su uno schema organizzato su due quartine fermate da un couplet a rima baciata, il poemetto non descrive, ma allude, in quanto la caccia è sic et simpliciter una caccia all’uomo: “c’è un cacciatore se c’è una caccia / ma non aspettare di vederlo in faccia”, “quando il cacciatore si è messo alla caccia / l’uno destino all’altro si allaccia”, “il cacciatore ama solo la caccia / l’unica chance è non lasciar traccia”, “non c’è il cacciatore c’è solo la caccia / sebbene la cosa a tutti non piaccia”. La condizione umana come contrasto fra persecutori e perseguitati è così disegnata con vivida percussività ritmica e insistenza “politica” da un poeta che ha sempre fatto della consapevolezza retorico-ideologica la propria divisa. Così, in un gioco dialettico di continuità-discontinuità di marcia, assumono valenza di costrutto senza tregua decostruito anche i brani di prosa molto eterodossa che intervallano (interagendo) le zone in versi, e nella complessiva operazione verbigerante sembrano dare brillantemente la baia alle cadenze metriche della tradizione. Ecco quindi che il senso comune si trasforma in controsenso, e l’apaisement apparente si fa aspra contraddizione.
Di qui, anche la necessità – dentro la conflittualità materiale – della conflittualità sul terreno delle idee e delle forme che Muzzioli definisce “la lotta nell’astratto” (considerata come semplicemente esornativa da chi ha interesse a non confrontarsi con essa), magari perfino fingendo di fare il verso all’allegoria, che è uno dei punti di forza del pensiero-scrittura dell’autore: “ma che bella allegoria, ia ia oh…”.
In questo libro il gioco non è mai futile, perfino quando si presenta sotto forma retoricamente ambigua: “ateo poeta non è che un palindromo”, come sicuramente sanno anche i fantasmi marxiani di Monsieur Le Capital e di Madame La Terre. Sì, perché “l’anima è una mania”, mentre “la superficie è la contraddizione – il cuore è il conflitto”
Al sarcasmo muzzoliano vengono a pennello sia il gergo degli operatori di borsa e la giostra numerica dei titoli finanziari che la funzione teatralmente controsènsica dei Cori. È la koinè dell’oggi mondializzato, insopportabilmente truccata, cui rispondono la logica materialistica di Bertolt Brecht e la sezione 1933, un tremendo “spaccato” d’epoca riverberato sul nostro oggi che non ha mai definitivamente rotto il cordone ombelicale che ad esso lo lega nel nome del Capitale.
Articolato nel Prologo affidato a un Coro, e in sei Quadri che mettono in scena alcune Grandi Figure emblematiche della politica antagonistica e della cultura più innovativa della modernità, da Gramsci a Joyce, da Virginia Woolf a Gadda, da Artaud a Breton, da Céline a Bachtin, a Majakovskij al Garcìa Lorca “americano”: e passando dal concetto (e dalla pratica) dell’egemonia gramsciana a quelli dell’allegoria e dello straniamento impersonati nell’ultimo Quadro da Brecht-Benjamin alla stazione, in fuga da un’Europa strangolata dall’alleanza naturale di nazismo e capitalismo, questo libro straordinario si chiude, in realtà aprendosi a possibilità di vere alternative, senza mai abbandonarsi a tènere malinconie o vacue speranze di salvazione. “Per chi scrive e per chi legge, – osserva Marcello Carlino nel suo puntuale e perspicuo Sussidiarietto – per il produttore di un’altra linea di produzione e per il consumatore di un altro consumo, la determinazione risoluta e l’invito (con la morale di questa favola che spregia la morale) convengono nel farsi, nell’istruirsi, nel volersi allegorici. Secondo quella allegoria restaurata e riattata come meglio non si potrebbe da uno dei massimi protagonisti della migliore cultura del Novecento, quella dell’intelligenza e della critica, della messa in conto di una giusta qualità-tendenza politica per il lavoro della scrittura (lui che qui, per di più, è impegnato in un contenzioso, in un contraddittorio)”.
Proprio una lezione di anti-qualunquismo dogmatico. Un altro tratto di verbigerazione critica che – tramite il libro di Muzzioli – rilancia i dadi di una modernità che pressoché da ogni parte si insiste, in questo paese iperformattato, a soffocare o a ignorare.
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