mercoledì 21 marzo 2012

"Sbarco clandestino" di Dante Maffia: una recensione di Giancarlo Giuliani


Ci si accosta a questo libro di Dante Maffia con lo spirito di chi sa che inizierà un viaggio non solo tra le parole e le emozioni del poeta, ma anche all’interno della propria coscienza. Ciò è subito evidente, basta leggere di Mamadou (p. 20), uno dei tanti disperati che cercano altrove una nuova vita e una nuova speranza:

Abbiamo dovuto gettare a mare
tre creature appena nate,
una madre morta partorendo, due anziani
che parlavano una lingua sconosciuta.
A che servirebbe piangere?
La terra è in vista, speriamo
che si calmi la tempesta.

I versi colpiscono con la forza di un macigno, proprio nella loro apparente “normalità”, che è il segno della vera poesia. Non c’è necessità di espressioni rutilanti, c’è invece una perfetta sintonia tra forma e contenuto. È così anche per Omar (p.22), in cui il dolore è solo accennato, ma davvero evidente: in quattro versi il poeta ci offre un ritratto che ha la forza di un’epigrafe e un dramma umano che si coglie perfettamente nel suo essere semplicemente accennato, nel respiro di un gesto.

La galleria continua, si susseguono storie e sentimenti, a volte (come in Kaddour, p. 23) con un linguaggio deciso, forte, anche aspro, ma sempre sciolto in poesia perché ricco di vero sentimento, di vera partecipazione. Non è un gioco intellettualistico quello del poeta, ma il ritratto senza infingimenti di vere tragedie, dell’odissea di tanti il cui nome è solo un flatus vocis, ma la cui sventura pesa sulle nostre coscienze, o almeno dovrebbe farlo. Così, dopo la dignitosa e fiera figura di Alì (p. 26), ecco il libanese Mahmud. Qui lo stacco del punto di vista, giocato tra il personaggio che dà il titolo alla poesia e l’anonima riflessione di chi lo accoglie, sottolinea con forza il tema più rilevante, quello di una sostanziale incomunicabilità tra due mondi:

[…]

Io eseguo ordini precisi,
di quello che ha detto non ho capito niente,
non è mio compito la loro filosofia.
Il suo nome è sconosciuto in Libano, forse
viene da altra terra, ha chiesto asilo politico.
Ha i pollici completamente consumati,
qualcuno dice che è un poeta, un pensatore.
Certo è uno strambo, che delira un po’
o chissà se ci marcia. Di questi qui
non si può mai capire fino in fondo
perché dicono certe cose, perché fanno
discorsi così privi di senso.
Non si è potuto accertare se ha precedenti,
sembra mite e indifferente a tutto.

Il ritratto femminile di Gada (p. 32) offre improvvisamente al lettore uno stacco, un taglio modulato sulla sensibilità femminile. A un certo punto si coglie il repsiro di quelle terre così lontane: chi c’è stato, sa che è così, chi non c’è stato, lo vede in questi versi con assoluta evidenza:

[…]

Io invece so che verrà l’aurora
a ridarmi l’azzurro del deserto,
la sconfinata libertà di Dio
[…]


Il tema dell’incomunicabilità, della differenza culturale, riemerge indirettamente nella drammatica figura di Slima (p. 34), che mostra assoluta e rigorosa fedeltà a rituali per noi davvero inconcepibili. E poi Malika, che vuole essere italiana, Larbi, il kamikaze pentito, Fatma, il cui silenzio è più eloquente di mille parole, così come lo stupore di Rekya (p. 47) e la “nostalgia” di Sevket (p. 58). Prima che il poeta stacchi il suo sguardo dai protagonisti di una quotidiana odissea, ecco l’orgogliosa affermazione di “Verrà un giorno”, che termina con una sorta di invocazione, apparentemente paradossale:

Che mai si parli una lingua soltanto,
che mai gli uomini siano tutti
d’un solo colore,
che mai i cuori siano allineati
in una sola direzione.

Le seconda sezione del libro ci conduce a Belgrado, in una sorta di rimbalzo tra memoria e presente, oscillante tra desiderio e rimpianto, come nel frammento 2, in cui il trascorrere del tempo pone un velo impenetrabile sul volto di una donna sorridente tanti anni prima. I ricordi sono vaghi, non si coagulano in nostalgia, come lungo la via Mihailova, e lasciano poi il posto, nel frammento 6, alla potente rappresentazione del carattere dei serbi:

Dio non ha badato a spese
quando creò il serbo, gli donò un cuore
dolce e maturo, e le braccia esperte
dell’uomo biblico.

L’ingiusta guerra portata contro il popolo serbo resta comunque incombente sui pensieri del poeta, che appartiene “alla razza imperiosa del comando”, ma prevale “il sorriso perenne della luce” e allora ecco che si può andare finalmente “fiduciosi e allegri verso l’alba”.

Due sezioni sono dedicate, successivamente, alle grandi tragedie di Haiti e di L’Aquila. Al poeta, di fronte alle immani dimensioni del disastro haitiano, sembrano quasi mancare le parole e non può che nascere una domanda angosciosa a quel Dio che ha permesso che ciò avvenisse. Ma non c’è risposta in una terra percorsa da “larve senza orizzonti”.

La bellezza ferita di L’Aquila emerge, indirettamente, da ognuno dei versi della sezione dedicata alla città di Federico, ma è opprimente quel numero, 309, poca cosa se commisurato ai disastri di Cina e India, ma così presente, vicino, doloroso che non si può che gridare, invitare alla lotta, alla rinascita. Aprile, il “mese più crudele”, ha spezzato le ali di una città intrisa di bellezza, ne ha sparso gli abitanti in case senza vita, ne ha ucciso le speranze.  La sezione termina con un dialogo tra il terremoto e una bambina, a sottolineare l’ineluttabilità dei fenomeni naturali, soprattutto in una terra che periodicamente paga un pesante tributo di dolore e rovina. Ma la bimba è anche il segno del ciclo che continua, della vita che riafferma la sua forza.

La sezione successiva ha il titolo di “tentato dalla prosa”, ma è grande poesia. La vita di tutti i giorni, con le sue banalità e con le sue piccole gioie, con gli improvvisi cambiamenti e con il dolore, il dramma, insomma, la vita: tutto prende vigore in versi che hanno il tono e il ritmo del trascorrere del tempo, che si lasciano quasi voracemente divorare dal lettore. Chi scrive si è lasciato cogliere dalle immagini, ha rivisto in “Una storia d’amore”, non si sa con quanta liceità, eco della dattilografa di The Waste Land, di un amore senza amore, di uno squallore che sembra coprire ogni cosa. Ma nei versi di Maffia non c’è la rassegnazione del personaggio eliotiano (“Bene, anche questa è fatta. Lieta che sia finito.”), ma c’è l’illuminazione di un finale folgorante, che trasforma il grigiore in tragedia:

Il volo fu rapido, secco il tonfo,
irriverente anonimo il lamento dell’ambulanza.


Vigorosa e incisiva è la poesia della sezione “La collezione di borchie”, 17 frammenti nei quali torna l’eterno oscillare tra bene e male, tra un inizio in cui

… tu non possiedi
nulla, neanche gli occhi sono tuoi, mentre
il nero catrame si fa più fitto e denso  (fr. 1)


e una fine in cui l’ironia sembra stemperare ogni cosa:

Certo che mi ricordo dei ricordi,
di quando insieme accendevamo la lavatrice,
stiravamo le camicie, mentre dicevi
che il miele era nelle mie mani.
Il miele è appiccicoso.

L’ultima sezione del libro è intitolata “Versi sparsi”. Il lettore inizia un nuovo viaggio, riceve nuovi stimoli, nuove sensazioni, rimpiange di essere quasi alla fine del libro. Spicca, incisa come nella pietra, la poesia di “La caduta dell’angelo”:

L’Angelo è rovinato fuori dal mistero
e tu vorresti coglierne il sentiero
senza direzione per vedere se ancora sia possibile
la redenzione? Fermati al limitare della bestemmia,
non osare di orchestrare il senso
se prima non entri nell’umana specie per sapere
cos’è il dolore della purificazione.
Lascia che il caos imperversi consumandosi in sé,
lascia ai tuoi colori la lotta per la sopravvivenza.


Chi scrive rileggerà “Sbarco clandestino”. Non ha finito di stupirsi.


                                                 Giancarlo Giuliani, marzo 2012


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