Ci si accosta a questo libro di Dante Maffia con lo spirito
di chi sa che inizierà un viaggio non solo tra le parole e le emozioni del
poeta, ma anche all’interno della propria coscienza. Ciò è subito evidente,
basta leggere di Mamadou (p. 20), uno dei tanti disperati che cercano altrove
una nuova vita e una nuova speranza:
Abbiamo dovuto gettare a mare
tre creature appena nate,
una madre morta partorendo, due anziani
che parlavano una lingua sconosciuta.
La terra è in vista, speriamo
che si calmi la tempesta.
I versi colpiscono con la forza di un macigno, proprio nella
loro apparente “normalità”, che è il segno della vera poesia. Non c’è necessità
di espressioni rutilanti, c’è invece una perfetta sintonia tra forma e
contenuto. È così anche per Omar (p.22), in cui il dolore è solo accennato, ma
davvero evidente: in quattro versi il poeta ci offre un ritratto che ha la
forza di un’epigrafe e un dramma umano che si coglie perfettamente nel suo
essere semplicemente accennato, nel respiro di un gesto.
La galleria continua, si susseguono storie e sentimenti, a
volte (come in Kaddour, p. 23) con un linguaggio deciso, forte, anche aspro, ma
sempre sciolto in poesia perché ricco di vero sentimento, di vera
partecipazione. Non è un gioco intellettualistico quello del poeta, ma il
ritratto senza infingimenti di vere tragedie, dell’odissea di tanti il cui nome
è solo un flatus vocis, ma la cui sventura pesa sulle nostre coscienze, o
almeno dovrebbe farlo. Così, dopo la dignitosa e fiera figura di Alì (p. 26),
ecco il libanese Mahmud. Qui lo stacco del punto di vista, giocato tra il
personaggio che dà il titolo alla poesia e l’anonima riflessione di chi lo
accoglie, sottolinea con forza il tema più rilevante, quello di una sostanziale
incomunicabilità tra due mondi:
[…]
Io eseguo ordini precisi,
di quello che ha detto non ho capito niente,
non è mio compito la loro filosofia.
Il suo nome è sconosciuto in Libano, forse
viene da altra terra, ha chiesto asilo politico.
Ha i pollici completamente consumati,
qualcuno dice che è un poeta, un pensatore.
Certo è uno strambo, che delira un po’
o chissà se ci marcia. Di questi qui
non si può mai capire fino in fondo
perché dicono certe cose, perché fanno
discorsi così privi di senso.
Non si è potuto accertare se ha precedenti,
sembra mite e indifferente a tutto.
[…]
Io invece so che verrà l’aurora
a ridarmi l’azzurro del deserto,
la sconfinata libertà di Dio
[…]
Il tema dell’incomunicabilità, della differenza culturale,
riemerge indirettamente nella drammatica figura di Slima (p. 34), che mostra
assoluta e rigorosa fedeltà a rituali per noi davvero inconcepibili. E poi
Malika, che vuole essere italiana, Larbi, il kamikaze pentito, Fatma, il cui
silenzio è più eloquente di mille parole, così come lo stupore di Rekya (p. 47)
e la “nostalgia” di Sevket (p. 58). Prima che il poeta stacchi il suo sguardo
dai protagonisti di una quotidiana odissea, ecco l’orgogliosa affermazione di
“Verrà un giorno”, che termina con una sorta di invocazione, apparentemente
paradossale:
Che mai si parli una lingua soltanto,
che mai gli uomini siano tutti
d’un solo colore,
che mai i cuori siano allineati
in una sola direzione.
Le seconda sezione del libro ci conduce a Belgrado, in una
sorta di rimbalzo tra memoria e presente, oscillante tra desiderio e rimpianto,
come nel frammento 2, in cui il trascorrere del tempo pone un velo
impenetrabile sul volto di una donna sorridente tanti anni prima. I ricordi
sono vaghi, non si coagulano in nostalgia, come lungo la via Mihailova, e
lasciano poi il posto, nel frammento 6, alla potente rappresentazione del
carattere dei serbi:
Dio non ha badato a spese
quando creò il serbo, gli donò un cuore
dolce e maturo, e le braccia esperte
dell’uomo biblico.
L’ingiusta guerra portata contro il popolo serbo resta
comunque incombente sui pensieri del poeta, che appartiene “alla razza
imperiosa del comando”, ma prevale “il sorriso perenne della luce” e allora
ecco che si può andare finalmente “fiduciosi e allegri verso l’alba”.
Due sezioni sono dedicate, successivamente, alle grandi
tragedie di Haiti e di L’Aquila. Al poeta, di fronte alle immani dimensioni del
disastro haitiano, sembrano quasi mancare le parole e non può che nascere una
domanda angosciosa a quel Dio che ha permesso che ciò avvenisse. Ma non c’è
risposta in una terra percorsa da “larve senza orizzonti”.
La bellezza ferita di L’Aquila emerge, indirettamente, da
ognuno dei versi della sezione dedicata alla città di Federico, ma è opprimente
quel numero, 309, poca cosa se commisurato ai disastri di Cina e India, ma così
presente, vicino, doloroso che non si può che gridare, invitare alla lotta,
alla rinascita. Aprile, il “mese più crudele”, ha spezzato le ali di una città
intrisa di bellezza, ne ha sparso gli abitanti in case senza vita, ne ha ucciso
le speranze. La sezione termina con un
dialogo tra il terremoto e una bambina, a sottolineare l’ineluttabilità dei
fenomeni naturali, soprattutto in una terra che periodicamente paga un pesante
tributo di dolore e rovina. Ma la bimba è anche il segno del ciclo che
continua, della vita che riafferma la sua forza.
La sezione successiva ha il titolo di “tentato dalla prosa”,
ma è grande poesia. La vita di tutti i giorni, con le sue banalità e con le sue
piccole gioie, con gli improvvisi cambiamenti e con il dolore, il dramma,
insomma, la vita: tutto prende vigore in versi che hanno il tono e il ritmo del
trascorrere del tempo, che si lasciano quasi voracemente divorare dal lettore. Chi
scrive si è lasciato cogliere dalle immagini, ha rivisto in “Una storia
d’amore”, non si sa con quanta liceità, eco della dattilografa di The Waste
Land, di un amore senza amore, di uno squallore che sembra coprire ogni cosa.
Ma nei versi di Maffia non c’è la rassegnazione del personaggio eliotiano
(“Bene, anche questa è fatta. Lieta che sia finito.”), ma c’è l’illuminazione
di un finale folgorante, che trasforma il grigiore in tragedia:
Il volo fu rapido, secco il tonfo,
irriverente anonimo il lamento dell’ambulanza.
Vigorosa e incisiva è la poesia della sezione “La collezione
di borchie”, 17 frammenti nei quali torna l’eterno oscillare tra bene e male,
tra un inizio in cui
… tu non possiedi
nulla, neanche gli occhi sono tuoi, mentre
il nero catrame si fa più fitto e denso (fr. 1)
e una fine in cui l’ironia sembra stemperare ogni cosa:
Certo che mi ricordo dei ricordi,
di quando insieme accendevamo la lavatrice,
stiravamo le camicie, mentre dicevi
che il miele era nelle mie mani.
Il miele è appiccicoso.
L’ultima sezione del libro è intitolata “Versi sparsi”. Il lettore
inizia un nuovo viaggio, riceve nuovi stimoli, nuove sensazioni, rimpiange di
essere quasi alla fine del libro. Spicca, incisa come nella pietra, la poesia
di “La caduta dell’angelo”:
L’Angelo è rovinato fuori dal mistero
e tu vorresti coglierne il sentiero
senza direzione per vedere se ancora sia possibile
la redenzione? Fermati al limitare della bestemmia,
non osare di orchestrare il senso
se prima non entri nell’umana specie per sapere
cos’è il dolore della purificazione.
Lascia che il caos imperversi consumandosi in sé,
lascia ai tuoi colori la lotta per la sopravvivenza.
Chi scrive rileggerà “Sbarco clandestino”. Non ha finito di
stupirsi.
Giancarlo
Giuliani, marzo 2012
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