Condividiamo la recensione di Simone Gambacorta sulla raccolta poetica di Mario Fratti "Volti", apparsa sul quotidiano "La Città" il 20 novembre 2014.
LA COMMEDIA DELLA VITA NEL TACCUINO DI FRATTI
Il drammaturgo pubblica in “Volti” le sue poesie. Ma il segreto del libro sta in uno sguardo teatrale sul mondo
La prima domanda che il lettore si pone di fronte alle poesie di Fratti è se le poesie di Fratti possano in effetti essere considerate poesie.
Se cioè non si commetta tutto sommato un torto nel prenderle per buone sic et simpliciter come tali; e se piuttosto non vadano viste, non vadano lette, non vadano osservate come qualcosa di diverso. Qualcosa nato magari da una certa intonazione di sguardo – per così dire – o da un certo moto intimo, e che tuttavia, alla prova dei fatti, ossia alla prova della lettura, sembra indicare un diverso e più segreto orientamento, un movente più sotterraneo e anche più sfuggente: cioè un senso diverso da una mera ambizione
espressiva. E a questo punto il lettore si domanda anche se non sia in questa direzione altra, in questa differente inclinazione, che vadano rintracciate le ragioni di una scrittura dove non sono rari i momenti di ingenuità e una certa fragilità d’insieme.
È vero: “Volti” (Tracce, pp. 140, 10 euro) riunisce per la più parte poesie scritte dal grande drammaturgo di origini aquilane – divenuto poi negli Stati Uniti, dove si trasferì nel 1963, uno dei nomi di punta del teatro – al tempo della giovinezza, più alcune altre successive; e tuttavia adottare questo parametro valutativo – ossia quello anagrafico – equivarrebbe a concedere a Fratti una sorta di attenuante: la qual cosa implicherebbe, inevitabilmente, una bocciatura dei suoi testi, una specie di condanna. Ma le cose paiono disporsi in altri termini, o “anche” in altri termini. “Volti”, infatti, nel suo incentrarsi e concentrarsi su immagini, nel suo definirsi – appunto – come un insieme di volti, di facce, di visi
immortalati in istantanee in forma di parola (il mendicante, il barista, il pretino, l’intellettuale), si presenta come una raccolta di punti di vista racchiusi in pochissime righe, e però capaci di sintetizzare, nella loro stessa brevità, o forse proprio grazie alla loro brevità, quelli che la voce scritta individua essere i punti
determinanti per la definizione di un destino, o dello stato di un destino (prendendo occasione da un incontro, da un ricordo, da una persona, da una fantasia).
umanità: più ancora ad abitarlo è una collezione di momenti, una teoria di soggettive, di primi piani, una molteplicità di frammenti accomunati – se l’espressione non è troppo inesatta – da una potenzialità teatrale, da una chance narrativa. In altre parole, a costituire la struttura concreta di “Volti” è la prensilità di un istinto scrittorio sollecitato ad attivarsi dinanzi a quegli aspetti della commedia umana in cui sembra risiedere una possibilità di sviluppo drammaturgico (al di là del fatto che poi sia scaturito o meno). Se la quotidianità è il primo palcoscenico dove la vita rappresenta se stessa attraverso
chi la vive, attraverso chi vi è presente, la sensibilità teatrale che appartiene a Fratti, e che ne innesca le mediazioni scrittorie, inquadra gli “attori” che il caso le pone davanti e ne asporta il tratto significativo (o anche suggestivo) per poi importarlo, in una formula a suo modo didascalica, in un taccuino di appunti sulla vita: sui “Volti” della vita.
E difatti, a scorrere il volume, si ha proprio l’impressione di sfogliare una specie di prontuario, un dizionario di possibilità, un lessico di spunti già di per sé provveduti – per lo meno per come il filtro della scrittura li restituisce e li rappresenta – di un quoziente di possibile impiego teatrale. Sembrerebbe suggerirlo, sia pure da un’angolazione alquanto diversa, un verso che suona simile a una confessione affidata a un’annotazione diaristica: «Voglio scrivere/ altri cento drammi/ di denuncia». In questa piccola gamma di “momenti” letti nel riflesso delle parole che li restituiscono, se non mancano lampi ironici e sarcastici, neppure mancano scivoloni indiscutibili (si vedano “Il mutilato”, “Giovani italiane” e “Studentesse”) né inflessioni più pensose, compassionevoli e commiseranti: «Piange,/ disperatamente,/ un uomo» (“Un uomo”). Eppure, al cospetto di questi volti, nel faccia a faccia con queste scie consegnate alla carta,
e perciò avulse dal movimento di esistenza cui ancora rimandano, risalta la capacità diagnostica di una semeiotica clinica della vita: un aspetto – questo – senz’altro non trascurabile, almeno negli esiti più persuasivi («Lui attende,/ fuori,/ paziente// che gli torni/ umida/ di seme», si legge in “Paziente”).
Nella seconda parte del libro, quella quantitativamente minoritaria in cui confluiscono i versi scritti dopo il 1963, prevale invece la corda civile, dove però tutto tende a risolversi nelle latitudini dello sfogo puro e semplice, con l’eccezione di alcune pagine dotate di maggiore forza e incisività.
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