venerdì 2 agosto 2013

Angelo Del Vecchio, un attore prestato alla poesia: la recensione di Aldo Onorati

Condividiamo la recensione di Aldo Onorati alla silloge poetica di Angelo Del VecchioParole alle parole" (Edizioni Tracce 2013, Collana I Campi Magnetici, prefazione di Davide Rondoni, introduzione di Daniela Quieti), pubblicata sul settimanale “Le Città”, n. 31, il 1 agosto a pag. 12.
“Parole alle parole” una silloge fuori le righe edita da Tracce che somiglia a uno scherzo ma è nei fatti un gioco di raffinata bravura apprezzato e presentato dal poeta Davide Rondoni

Angelo Del Vecchio ha 28 anni. Nato in Abruzzo, lavora a Roma, assistente di Giuditta Camberi al Corso di recitazione presso l’Act Multimedia di Cinecittà, scuola di cinema che ha frequentato dal 2006 al 2008, avendo come docenti Francesco Rosi, Carlo Lizzani, Alessandro Gassman. Ha recitato in qualità di coprotagonista, nel cortometraggio “L’ultima spiaggia” di Pierpaolo Rella, il quale lo ha scelto poi a interpretare - da attore protagonista - “La fama e l’onore”, cortometraggio che ha partecipato al film Festival di Torino del 2009. Ora, fra le mani ho il suo primo libro di poesie “Parole alle Parole”, edito da Tracce nella collana “I campi magnetici” diretta da Daniela Quieti. Lo tengono a battesimo letterario la stessa Quieti, nonché Davide Rondoni. Devo subito assentire con Rondoni che coglie il nucleo di questa silloge, sottolineando “l’acuta ironia e autoironia dell’autore”, due qualità, specie la seconda, molto rare nell'ombrosa schiera dei poeti (come li definisce Orazio).
E sto anche con la Quieti la quale dice: ”C’è un’intima amarezza sottesa che pervade i testi e s’incarna in elaborazioni lessicali ritmiche e vive di immagini inconsuete e multimediali”.
In verità, questa silloge “fuori le righe” in senso positivo, può essere vista come uno scherzo e un gioco di raffinata bravura sintattica, oppure come un’indignazione civile verso il mondo corrotto che ci circonda e ci conduce. Oppure, si può gustare in entrambi i piani di lettura. Ad esempio, riporto, prima di svolgere altre considerazioni, alcuni ipometri punzecchianti: “Che mi metto?/ Mi metto// L’elmetto!// Il capo si china/ Chiuso come la rima/ Di chi lima// Il profilo inesistente/ Di un potere conseguente// Trafigge la mente// Chi mente/ Vuole/Non sente”: sembra un divertimento, ma non lo è; anzi, nasconde un pensiero amaro, una presa di coscienza che trova espressioni personali, fuori dalla “poesia del cuore” e anche dai troppi sperimentalismi in cui un Vate diviene ragioniere della parola non significante. Qui non si tratta di sperimentalismo, bensì di una dizione portata al massimo della lapidarietà plurisignificante, sliricizzata ad arte (“La paura/ La tortura/ Il libro letto senza la censura// La candidatura/ L’università che non è cultura…”).
È come se Angelo Del Vecchio togliesse il superfluo (che purtroppo oggi abbonda in tante sillogi parolaie) per scavare con un solo sintagma, se non addirittura con un sostantivo unico, nelle ferite dell’essere. Andrebbe riportata intera la bellissima “Acqua” (l’incipit è questo: “Goccia che scava la roccia/ che liscia e lava/ in fredda doccia”: ove le rime interne e quelle esterne danno un battito di ballata popolare sui generis alla struttura, mentre sono frutto di uno studio meticoloso), per la osmosi fra le cose visive, tattili, e quelle invisibili, morali. E si badi bene: non si tratta di metafore, bensì di rimandi, identificazioni, sineciosi.
“Un tempio fatto di laica sincerità/ Unita a una sonorità cristiana”: qui l’autore poteva rimare con le parole tronche: e non ha voluto, mettendo in dissonanza il distico: ma così è più efficace, perché una rima accentata avrebbe preso troppo l’orecchio, non la riflessione; invece, Angelo ha posposto i termini, al fine di spostare l’attenzione dall'udito alla cogitazione.
Quello che a lui importa non è il prezioso gioco di parole, ma la sostanza del significante e del significato. 
Qua e là, a mo’ di sentenza acutissima (che racchiude una sua filosofia della vita), si incontrano ipometri di questo tipo: “L’uomo è l’avanzo/ del resto del pranzo”. 
E di questi lacerti, che potrebbero avere dignità di proverbi, ce ne sono tanti nella silloge (vediamone un ultimo: “Una banca una nota/ Che annota / E vivere e non esistere è un’attività remota”, dove l’ossimoro spiana la strada al paradosso, pur vero, e proprio perché paradossale, diviene più credibile, in un mondo in cui i rapporti fra le cose e gli esseri hanno scavalcato i limiti della ragione).
Insomma, un ritmo battente, “omologie” e contrasti, illuminazioni rapide e sapide, ironie dovunque, ma sul filo del rasoio del paradosso, il quale, in fondo, è la regola della vita (altrimenti Kafka e Pirandello, ad esempio, avrebbero avuto torto). 
Del Vecchio, risistemando (ricostruendone talvolta i significati) le parole, conia concetti profondi e disposizioni sonore nuove. Scompone termini, agglutina sintagmi, li giustifica rafforzandoli in rima (dimenticata dèa da parte dei Vati a digiuno di ogni necessaria e salvifica tecnica).

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