giovedì 6 giugno 2013

Pensieri a brandelli su Animamadre di Nina Maroccolo

Condividiamo la recensione al libro "Animamadredi Nina Maroccolo a cura di Vinz Notaro, apparsa su http://invinovanitas.ereticidelterzomillennio.org/
-Dottore sono pazza?
-Lei non è affatto psicotica, mi creda…
la follia, quella sana, contiene in sé elevate
potenzialità creative. È l’operare
del genio umano attraverso scalfitture
dell’anima.
-Le dà fastidio il pieno sole sulla testa?!
-L’amore per l’arte mi ha sostenuto, sa?
-L’ha salvata.
-Ma l’anima pesa…
(Animamadre, p. 15)

Quando conobbi Nina fui rapito da un tepore strano, non semplicemente materno, una di quelle percezioni che non riesci da subito a definire, sfugge e devi inseguirla, anima femmina in tutto e per tutto. Tremore e vibrazione. La voce che ti tira l’anima dal petto, una poesia devastante, la musica come teatro dei sogni, dei traumi, degli dèi, la dea tigre che batte i piedi in terra e sprofonda per perdersi a riaversi, lo sputo utopico e serpentino su un mondo alla deriva, la pace per resistenza. Queste, le tessere di un mosaico dinanzi al quale ho tremato, una monumentale e statuaria allegoria di quel calore dolce come un veleno, quel calore che ricordo aver provato quando conobbi Nina. Lo stesso che ho ritrovato quand'è arrivata a me “Animamadre”, sua opera letteraria più recente. Magnifica dedica, magnifica calligrafia, c’è quel tepore, lo stesso che mi scorre sotto la pelle adesso, mentre scrivo e penso a tutte le cose che abbiamo avuto e sempre avremo in comune, cose che si chiamano, e si rispondono. Se apri a caso "Animamadre" funziona come un oracolo: ti mostra quel che vuoi vedere, indovina passato, presente e futuro, un gioco all'autodeterminazione che chi ha scelto la via della bellezza conosce. Una bellezza che, diciamocelo adesso, sa essere terribile, Animadre che fa a brandelli le sue figlie e i suoi figli, ossia fa a brandelli se stessa, mezza Kali e mezza Chinnamasta, e, per paradosso, ancora mezza Matangi, con quel suo fiume di poesia blu-impuro. L’anima che si frammenta, fa discendere la visione di ajña¯ in Vis´uddha, tradisce, tramanda, capovolge. Questo è il senso ultimo del poetare. Pericolosissimo. Dove non arrivano che in pochi. E Nina c’è arrivata, dolorosamente, con un enfasi che t’atterrisce e il profumo dell’ineffabile. Perciò, non vi narrerò la trama di questo romanzo che romanzo non è e che trama non ha, poiché sarebbe usare un metodo improprio: lì dove balenano fascinazioni ne perderemmo l’intensità didascalizzando ciò che per natura non può esser didascalizzato. Userò, invece, un metodo impuro. Vi dirò ancora pochissimo, brandelli di quel che vi ho trovato, vi parlerò dello scenario, questo struggente sogno più reale della realtà, più autobiografico della vita stessa della scrittrice. Animamadre è l’antro della Sibilla, una stanzascacchiera dove buio e luce di alternano folgoranti: è qui dentro che ci muoviamo, consci per sforzo che è questo il luogo in cui sempre tornare all’emersione fulgente, illuminatio che ancora ci affonda nell’immersione tenebrosa. Un’iniziazione infinita. Il primo passo è l’innocenza dell’errore. Il peccato originale a 5 anni, l’anima che vuole compiersi, il corpo impreparato. Passo che non puoi osare, osa al tuo posto, ti viene incontro ed è la chance che tutti perdiamo, necessariamente. Se i piani dello spirito vengono trascinati a terra, accadono cose disastrose. Meravigliosamente disastrose. La chance perduta mette in moto la ricerca. La chance perduta è la vera chance. Al secondo passo ci si guarda intorno, si cercano sguardi. Si vedono personaggi, ancora brandelli, come in un sogno ogni persona che incontriamo è il sognatore stesso e, per quell’ambiguità dei sogni, e sempre anche qualcos’altro. E quel qualcos’altro è anche qualche altra cosa ancora. Chi è il sognatore? Nina che scrive? Io che leggo? E chi è l’altro dal sognatore? Una figura ancora una volta divisa in un contenuto originale e in un archetipo. Deità lontana e celata nella persona a noi più prossima. Qui l’anima è a pezzi, la madre è stata stracciata in brandelli. Al terzo passo ci si chiede qual è la via d’uscita. Il dubbio lancinante è rivelazione e paranoia, diviene maniacale. Non si sopporta la rivelazione, poiché ti rende inadeguato agli occhi del mondo, agli occhi che cercavi il passo prima, quegli occhi che sono anche i tuoi, eppure sempre di qualcun altro: «Hai una responsabilità verso gli altri che non riesci ad assolvere» (p. 35). Questo è il dramma, il terzo passo, la nascita vera: un paradiso perduto, verginità violata dal sempiterno desiderio che è prima del prima e dopo il dopo. Al quarto passo, uno spiraglio, un’apertura. La porta, la via d’uscita la vedi: devi accettare la tua sproporzione e fare dell’anomalia una disciplinata arte. Piallare, scavare, nel cuore, nel tuo cuore e sapere che lo scarto è l’estasi: il paradosso di chi nasce poeta. Devi assumerlo fino in fondo, il che comporta una resistenza invalicabile. Qualcosa di te deve morire. A volte, per andare avanti devi esserci costretto, e molti periscono del tutto per non avercela fatta. Bisogna avere il coraggio e l’intuizione di bere quel veleno dell’arte fino all’ultima goccia, il coraggio di abbeverarsi alla sorgente impura, un’acqua alla rovescia. Ma val la pena di attraversare questo paradosso fino alla fine, per comprendere che se all’acqua è legata la sete, al veleno è legata la fine della sete: «A noi che restiamo ci salva l’oscurità. Principessa con ali di cigno, Tenebrìa, Colei che risorge dalla notte» (p. 17). Al quinto passo si pone la questione di come raggiungere quella porta. Come si fa? Cosa si fa? Averla vista non è pari a valicarla. Si richiede una prova. Ed è allora che affiora la necessità d’un iniziatore. Qui l’immensa maestria di Nina è capace di tracciare una figura di una profondità impensabile, tirandone fuori la più immanifesta connotazione di un pater iniziatore inconsapevole, che nel mentre mette alla prova deve egli stesso subire una prova ben più dura: bastonare, trebbiare, falciare la propria figlia. «Così mi sentivo: battuta come si batte il grano, quello dorato, color miele» (p. 49), è la faticata immagine dell’oro filosofale che ci dona Nina. E non siamo neppure al principio d’un viaggio senza fine. Ben altri passi si dovranno compiere su quella scacchiera di spirito e bellezza, delirio e ispirazione, per disegnare il nostro mosaico, la nostra scintilla divina. E non è andando semplicemente avanti nel testo che si potranno cogliere le indispensabili tessere lasciateci tra le righe e il poetare bellissimo, sotto le orme delicate che Nina vi ha impresso, ma cercandovi dentro in ogni modo: scavandovi, scorrendolo in diagonale, in verticale, ripercorrendolo a ritroso, aprendolo a caso, facendone il racconto a pezzi. Si, per nutrircene. Per rinascere nutriti dal sacrificio dell’Aninamadre, la nostra.

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