giovedì 27 giugno 2013

Il quotidiano eroismo del vivere: Raffaele Stella

Condividiamo l'intervento di Pietro Pelosi (Docente di Teoria della Letteratura - Salerno) sulla silloge di Raffaele Stella "Straniero nel mondo", in occasione della presentazione del libro del 14 giugno ad Avellino:

Straniero nel mondo presuppone un mondo straniero, un non trovarsi presuppone una inquietudine che sceglie comunque di essere qui e di confrontarsi con ciò che è straniero (forse ostile) ed esplorarlo. La politica presuppone una sofferta auto conquista e  perciò non è solo politica, ma conquista civile, slancio civile, denuncia civile, anche quando al mondo (straniero) può non piacere. Invece d’essere un demone o un eroico furore, il poeta sceglie di essere uomo con la sua dignità e con le sue contraddizioni ed i suoi disorientamenti: e l’amore diventa offrirsi, l’essere uno in molti e molti in uno, essere l’altro e patirlo, essere chi ci è vicino, che ci è prossimo.
E’ questo il segreto della poesia e dell’arte di Raffaele Stella, poeta che a ben ragione Paolo Saggese non annovera tra gli “utres inflati” ed io aggiungo insufflati: su un altro piano che, impropriamente viene chiamata umiltà. Ma umile significa inferiore, terra terra e spesso l’eccesso di umiltà può essere scambiato per basso, oscuro. Qui io preferisco la parola “modesto” che indica “colui che non si esalta per i propri meriti: l’uomo veramente grande è modesto”. L’arte, per Raffaele Stella è una scelta: eligere. Invece di essere insufflato dai portenti, egli è ispirato da ciò che lo circonda: uomo, natura, sociale.

Il prodigarsi per gli altri non è che amore: e amore sono anche queste poesie che traboccano di pietà e di rimprovero, di sentimento e di ragione che trovano un equilibrio. La vita di un uomo che trova misura nella parola e nel colore, nel verso e nella pittura. L’intenso cromatismo dei volumi e delle fughe prospettiche, l’intensità del ritratto o l’ondulazione del paesaggio, diventa nelle poesie, umbra, piano rarefatto dove solo l’essenziale rimane, lineare e nudo, ma non meno espressivo. Nel dialogo interiore i bagliori di bellezza del mondo si spengono nell’Irpinia che muore, nella sua anossia, nei ragazzi che cazzeggiano ai bar, nello storico che tace e nell’antropologo che vacilla.
Non è né constatazione né requisitoria: “Il Mondo è morto” in quanto “… il sostenibile s’è perso …”. Mi preme insistere qui su questo aspetto del ragionatore profetico, su una poesia che è interpretazione del proprio tempo, ma anche luogo privilegiato del pensiero. Una poesia che non pensa e non lascia pensare non è tale. D’altronde, Alfred De Vigny, per necessità di nascita poeta romantico e grande, non aveva paura di definire la poesia: “perla del pensiero”, ad  onta d’ogni forma propriamente o impropriamente platonizzante (Penso alla Repubblica e all’ostracismo dato ai poeti, ma anche a quell’atteggiamento volutamente titanico e solipsistico). Sono pienamente concorde con Paolo Saggese che la speranza (ossia l’attesa) è uno dei punti chiave nell’indefinibile andare del tempo che lavora per eliminare scorie, scorze, mostri e prodigi per estenderci ancora sul rinascere. Nell’incertezza, “Santo o sciamano…”, la certezza è che tutti abbiano e siano per questo uguali, tutti abbiano gli occhi, le pupille e le ciglia, tutti siamo un impasto di istinti animali e di qualcosa che nobilita gli istinti. Meglio, come fa il poeta, non chiamare il mistero con un nome, ma lasciarlo tale nella sua indicibilità, ma con il cuore aperto a ciò che ci circonda.
Ciò che conta è aprirsi all’altro, intridersene, essere, come diceva Ungaretti una “voce unanime” e un grumo di sogni. Ciò che conta è additare un oltre, un più in là apparentemente irraggiungibile, inseguito da milioni di anni e che, in fondo, giace in noi stessi come in ciò che vediamo.

Pietro Pelosi

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