martedì 4 dicembre 2012

Una recensione a "Ver sacrum" a cura di Salvatore Castiello

Condividiamo con i nostri Lettori una recensione alla silloge poetica "Ver sacrum" di Franco Campegiani a cura di Salvatore Castiello:
Presentare un libro di poesie, credetemi, è un’impresa.
E’ un’impresa, ma, come partecipai a Franco Campegiani nei nostri primi contatti, allo stesso tempo affascinante, stimolante, avventurosa e, per certi aspetti, sublimante.
La poesia non è un racconto, di cui puoi o meno accennare la trama, parlare di un personaggio o di un fatto.
La poesia, nell’immaginario ancestrale che ci portiamo dietro da sempre, è un’espressione letteraria, la cui pagina richiede “rispetto”.
Il prefato “rispetto” va inteso come raccoglimento ed attenzione.
La poesia si “recita”, si “interpreta”, si “declama” o altro, di certo non si “legge”.
Aggiungo che di norma, quando un attore, o chi per esso, si accinge a “declamare” una poesia, ne enuncia il titolo poi si ferma, si “raccoglie”, cambia espressione, postura del corpo, prende fiato ed inizia.
Questo è il rispetto, cui alibi facevo menzione.
La poesia è come una partitura musicale, la quale lascia all’esecutore la “interpretazione” ma nel rispetto della “pagina”, così come è stata ideata, scritta e voluta dall’autore.
La musica è una sostanza che ti arriva al cervello e ti fa viaggiare nella notte dell’universo in mezzo ai frusii delle stelle e dei pianeti (Tonino Guerra)
La musica è quanto di più vicino alla magnificenza degli dei gli uomini conoscano (Franco Forte lo mette sulla bocca di Terpno, maestro musico di Nerone, nel suo “Roma in fiamme”).
Vi prego di tenere presenti codeste brevi definizioni, in quanto entrambi, chi per un motivo e chi per un altro, ci accompagneranno nel corso dell’esposizione.
La poesia è musica, fonetica alchimia di melodia e ritmo, dati dalle parole, allorquando la melodia, come linguaggio dei sentimenti, si concede al ritmo, come il passo segnato dagli accadimenti.
Ogni parola ha un suo suono con i suoi accenti.
Cambiarli significa forzare la vita nei suoi ritmi e nelle sue leggi.
Tutti ricorderete il “Verba volant, scripta manent”.
Della predetta asserzione nel nostro immaginario abbiamo presente sempre e solo il momento “vincolante”.
In codesta sede, invece, ne invoco un altro momento saliente.
Più precisamente quello magico del trasferimento da una persona ad un’altra, attraverso le parole, delle sensazioni, nonché delle emozioni e del travaso da una persona ad un’altra della propria vita, con tutte le sue esperienze ed emozioni, con tutta la sua storia.
La parola diventa poesia quando, come nel caso che stiamo esaminando, è in accordo (nel senso che vibra alla sua stessa frequenza) con la vita che è in noi.
Da essa vita, intesa nella sua quotidianità più o meno condizionante, la poesia ci eleva, conducendoci alle sue vibrazioni universali.
Ci accompagna alle di essa cadenze.
Ricordate quando da bambini andavamo per mano ai nostri genitori o accompagnatori occasionali? Certamente ricorderete l’effetto “armonico” che scaturiva in noi quando (tutti l’abbiamo fatto) riuscivamo a fare i passi “in cadenza” con quelli dei nostri accompagnatori.
Nel momento in cui riuscivamo a fare il prefato passo “in cadenza” venivamo investiti da una forza che ci proiettava al di sopra ed al di fuori della realtà del momento.
Vi invito ad andare indietro nel tempo ed a rivivere qualcuno di quegli attimi.
A come ci sentivamo partecipi, nonché gratificati comprimari di un’armonia, che ci avvolgeva.
Mi sto soffermando sui suoni della poesia, perché è la prima sensazione che colpisce il lettore.
Confesso che è una mia fissa senile.
In me si è radicata la convinzione che la musicalità, intesa come rispondenza a predeterminate leggi, sia un felice viatico a che, attraverso la di essa armonia di vibrazioni, il corpo del testo, nonché la sua essenza vera, possano giungere ad agguantare i pensieri e, con essi, gli animi.
Come il “Titano” (per quei pochi che non ricordano: Beethoven) con il suo DO-DO-MI, incipit imperioso della sua V Sinfonia, ci dice che in questo modo bussa il “destino” alla nostra porta, così Franco Campegiani bussa alla porta della nostra esistenza e ci pone innanzi la vita.
Immersi nel wagneriano “golfo mistico” e sotto la direzione del Nostro, con i di lui continui cambi di ritmo, di tono e di tempi, vediamo squarciarsi i veli e con essi i misteri della nostra esistenza in tutte le sue sfaccettature.
Egli ci riporta in superficie ripescandoci dalla nostra più profonda essenza.
E’ un’operazione, per le sue cifre identificative, a volte anche crudele ed a tratti feroce, facendoci scorrere davanti agli occhi le clips dei nostri errori, delle nostre emozioni, delle nostre povertà, in una summa felice, della nostra umanità.
Franco Campegiani si presenta alla porta dell’animo del lettore corredato di campanelli, arpe, timpani, trombe, violini e viole.
Ogni singolo strumento viene scelto dal poeta in dipendenza del messaggio, che lo stesso deve veicolare, del percorso più o meno accidentato che esso messaggio incontrerà per giungere a toccare nel lettore quella determinata corda, pizzicarla e farla vibrare.
Campegiani non si ferma alle prime note.
Egli vuole che noi lo seguiamo fino alla fine della partitura, così come fa un solerte e diligente orchestrale quando segue obbediente i cenni del direttore d’orchestra.
Egli ci porta, direi meglio, ci trascina sulle onde ora di questa ora di quella aria, di quella romanza o introduzione, lungo lo snodarsi delle sue sensazioni, dei suoi orizzonti dialettici, ora vicini ora lontani, ora introspettivi ora universali.
Mutuando la metafora orchestrale, il nostro ci fa sentire parte di un tutto armonicamente in movimento, dandoci la percezione gratificante di quanta e quale importanza ognuno di noi rivesta all’interno di codesto “sistema”, non disgiuntamente dalla piena coscienza della “inarrestabilità” del medesimo.
Egli ci pone di fronte questa meravigliosa “esecuzione orchestrale” che è la vita, cui ognuno di noi dona il suo contributo e, nel contempo, ne riceve la relativa “risposta”, intesa come conseguenza del proprio impegno alla partecipazione ed alla esecuzione medesima, interagendo gli uni con gli altri.
Diceva l’imperatore Adriano (cito per rispetto del dichiarante) che la vita è un fiume che “ducit volentem et trahit nolentem” (la vita è un fiume che “accompagna chi si lascia guidare e trascina chi fa resistenza).
Una volta che il primo violino da il “la” ed il direttore ha chiamato il “battere” non ci si può fermare più!
Bisogna…vivere.
Alibi ho precisato l’arduità che investe chi, come me in questa circostanza, deve presentare una silloge di poesie.
L’arduità è data dal fatto che ogni poesia rappresenta una summa di specifiche sensazioni (e non altre), frutto a loro volta di fasci di pensieri, che si abbracciano fra loro ed insieme sostengono e sottendono un unicum, che è il contenuto del testo.
Per la sua struttura, dal punto di vista prettamente della forma soggiacente, che deve cioè rispondere a leggi predeterminate, la poesia è sintesi.
Come tale necesse est, è per forza di cose, per incontrovertibili circostanze oggettive, che il lettore deve “tornare” sul testo, al fine (mi si lasci passare un vocabolo cui sono particolarmente legato) di “metabolizzarlo”.
Quando parlo di “metabolizazzione” intendo l’effetto di arricchimento globale che ogni testo di Franco Campegiani determina in chi lo affronta o lo ascolta.
Ogni animo, meglio, ogni anima, in armonia con tutto quanto esaminato, trova una risposta alle sue domande, sia quelle di cui essa anima è cosciente di sentir sorgere nel suo interno, ma, in un processo molto più arricchente, una risposta a quelle domande che lo stesso Campegiani provoca nei nostri più arditi recessi.
Solo così potremo giungere al momento magicamente appagante dell’accordo finale di codesta sinfonia che è il nostro povero vivere.

Disse la madre al figlio Note
Questo testo ha un che di magico.
Non sembra scritto da un uomo.
Mi spiego meglio. Non sembra scritto da un maschio.
Si, è una apoteosi della donna nel suo magico momento esistenziale che è la maternità.
Sollecito l’attenzione delle donne e le invito a riflettere su alcuni momenti salienti del testo.
Sono attimi incantati che proiettano chi legge in una dimensione patafisica. In quella dimensione, cioè, che va collocata dopo la fisica e prima della metafisica.
In quella dimensione contro cui va a cozzare la nostra piccolezza di maschi.
Invito i signori maschi a fare un sincero “confiteor”.
Quanta “invidia” strisciante (se pure sana, naturale e, per questo, ineluttabile ed oggettiva) anima le nostre apprensioni fin dal momento, in cui un figlio viene concepito?
Ripeto, se pure sana, amorevole, appassionata è una “invidia” per quella parte del vivere, che, attesa la struttura naturale della nostra esistenza, viene negata a noi maschi.
Richiamando i prefati “attimi incantati”, polarizzo l’attenzione su uno di essi nel verso “…come meteora caduta dal cielo.”
Il concepimento, la nascita, nonché l’impegno a crescere e ad educare un figlio è un avvenimento della vita di una coppia e della donna, in specie nel momento che ci tiene occupati, con una portata sconvolgente pari alla caduta di una meteora, vista sotto molteplici aspetti.
In “Filumena Maturano”, alla fine del terzo atto, Domenico Soriano dice a Filomena; “..tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a Dio non come due giovani che ci si trovano per aver creduto amore un sentimento che poteva essere soddisfatto ed esaurito nel più semplice e naturale dei modi…”, ma come “…due coscienze formate che hanno il dovere di comprendere con crudezza e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone in pieno tutta la responsabilità…”.
Un figlio non deriva da un atto o fatto “naturale”.
Un figlio viene da molto più lontano. Quasi da un altro mondo.
E qui si innesta un grande dramma (alibi cercherò di spiegare perché parlo di “dramma”) esistenziale, che dona alla donna un momento di respiro quasi cosmico: sentire e partecipare, attimo dopo attimo, al “pulsare” del cuore ed a quel “…vento di galassie lontane”, di cui al testo del nostro. 
Nelle righe pregresse ho parlato di “dramma”.
Codesto dramma prende corpo e vita, dal momento della nascita e non si estingue più, ci accompagna fintantoché dura il nostro soggiorno terreno.
Esso soggiorno subirà fasi alterne più o meno felici, più o meno esaltanti, ma accompagnerà per tutta la vita la donna, in quanto madre, e (fatte le debite proporzioni e dimensionamenti) l’uomo, in quanto padre.
Un vecchio assunto della mia tribù, dimorante all’ombra del Vesuvio, allorquando una madre vede il figlio in estreme tribolazioni (di varia natura od entità, sia fisiche – come malattie – o morali) le fa dire: “…m’ ‘o mettesse n’âta vota ‘ncuorpo!” (lo rimetterei un’altra volta nelle mie viscere).
Spero d’aver reso l’idea della drammaticità del vissuto di una madre per la sofferenza indottale.
Il “dramma, di cui poco sopra, lo troviamo nell’epilogo del brano.
Gli ultimi sei versi sono una sintesi articolata di quel vivere, in cui la madre sa che il figlio andrà ad esprimere se stesso, agendo in un meccanismo, che lo ha preceduto e delle cui leggi dovrà subire e patire gli effetti.
I prefati sei versi, partendo dal primiero respiro del poeta, “Meteora”, sono un
trampolino di lancio per il secondo, “Questo mondo”, e per il terzo, “Cercare lontano”.
Scorrendo questi “respiri” abbiamo in filigrana la presenza quasi fisica della madre, mentre ammonisce il figlio su quale sarà il suo vivere futuro, a far tempo dalla sua nascita.
Con i suoi ammonimenti, con i suoi avvisi, con le sue raccomandazioni la madre gli pone sotto gli occhi una rivelazione che ha la possanza dell’immutabilità, granitica e tetragona a tutti gli avvenimenti dell’esistenza, gli dice: “Solo durante il tempo in cui sei stato con me, all’interno del mio ventre, nulla ti poteva accadere di nocivo, negativo et similia”.
…mentre lo dice la madre sa che non potrà fare niente per evitarglielo!!
E credetemi è un dramma!

IL MALE DI OGGI
Il testo ha una struttura dicotomica.
Vi sono due respiri, due momenti.
Uno negativo limitato nei tempi e nei luoghi.
Esiste, però, oltre le parole e si tocca con mano, il momento catartico, la possibilità per l’uomo di affermare il se stesso imprigionato entro codesti limiti.
C’è questa possibilità in capo ad ognuno di noi, presi singolarmente, ma parti di un tutto, funzionali e condizionanti l’uno per l’altro, atteso che una forma soggiacente ci tiene legati al meccanismo dell’esistenza.
Codesto meccanismo, il cui meccanicismo comporta un’autolimitazione, non ci viene addebitato a colpa od errore.
Il nostro autore giustifica l’uomo per l’insorgere di tale incastrarsi di fatti e cose.
Lo assolve.
L’uomo, col suo vivere, innesca un processo, il quale una volta messo in moto sfugge al suo controllo.
Il meccanismo, senza scomodare alcuna visione Orwelliana, si riproduce in modo automatico, inarrestabile, a cascata (per sentirne la portata basta accelerare il ritmo della declamazione ed otterremo la violenza dell’acqua, che cade giù, che precipita verso il basso e…”muore”, quando diventa, meglio, si trasforma in fiume, lago o mare).
Franco Campegiani crede nell’uomo, vittima del suo stesso vivere. E’ vittima in una forma articolatamente cosciente e, ad un tempo, in una forma articolatamente incosciente.
Ognuno di noi sente questo “male” che ci avvolge le mani, gli occhi, le orecchie, il cuore, l’animo.
Ma in ognuno di noi, come accennavo alibi, c’è una piccola grande risorsa: il se stessi.
Se stessi oltre ed al di fuori di qualsivoglia meccanicismo castrante o condizionante.
E siamo noi ed il nostro io, con lo sguardo al di sopra di qualsivoglia limite o barriera. Siamo noi come “figli”, nella accezione profonda di frutto “biologico”. Siamo frutto di un “bios”, il quale, a sua volta, va a determinarsi, nel suo evolversi ed affermarsi, seguendo obbediente le sue stesse leggi, passando attraverso la sua stessa storia.
Qui si presenta il secondo respiro del componimento.
Abbiamo una sequela di lampi di vita, evocanti il prefato “bios” ed il laccio a mezzo del quale ci tiene legati al suo manifestarsi: “…padre contadino…”, “…sudore vivo…”, “…doglie della terra partoriente…”, “…affinché tutto risorgesse…” e, ultimo, “…esplodevano…”.
Ad onor del vero ce ne sono anche altre. Volutamente mi soffermo su di essi lampi.
Cosa hanno in comune questi lampi di vita?
Sono “anelli” di una unica catena, una catena di vita.
Hanno in comune il trascorrere del tempo, la cui cifra di riconoscimento è l’ineluttabilità (quel kronos, a cui era sottoposto lo stesso Giove, come ci hanno insegnato i classici), nonché il rispetto delle leggi, che regolano il suo meccanismo.
L’uomo con la sua attività opera e si adopera, in ossequio alle leggi del tempo ed agendo (tanto per restare nella evocata metafora contadina) in un solco gia pretracciato dall’uomo che lo ha preceduto.
Così come faranno gli uomini che verranno dopo.
Richiamo l’attenzione su un aspetto basilare: non c’è fatalismo, non c’è cieca sottomissione, nonché ottusa obbedienza a ciò che deve accadere.
No assolutamente.
Infatti. tornando al testo, abbiamo: il “padre contadino” che insegna con il suo operare ed il figlio capisce dai suoi gesti “…che c’è un male che fa bene“, che “pota” le viti (gesto di una ferocia sconvolgente nella medesima misura in cui è necessaria), il quale “con amore coccola” la terra.
L’uomo è si, inserito in un sistema che, cronologicamente, lo ha preceduto e lo seguirà, però la presa di coscienza, di quanto e come conti il suo ruolo all’interno del sistema, lo porta alla scelta di obbedire a quelle leggi di sistema, le quali lo condurranno lontano dalle aberrazioni, di cui al primiero respiro del testo.

Salvatore Castiello

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