mercoledì 21 novembre 2012

Una recensione a "Ver sacrum" a cura di Maria Rizzi

Condividiamo, con piacere, con i nostri Lettori una recensione/relazione alla silloge poetica "Ver sacrum" di Franco Campegiani a cura di Maria Rizzi:
‘Non ci si bagna mai nello stesso fiume’,
o ‘il sole sorge nuovo ogni giorno’
-Eraclito-.

La vita esiste laddove tra gli opposti subentra una mutua necessità reciproca: non vi sarebbe salute senza malattia, sazietà senza fame.
Franco Campegiani, critico letterario, critico d’arte, filosofo honoris causae, ama definirsi puccinianamente Poeta. E, da Poeta, ci dona la raccolta “Ver sacrum”, che non può essere affrontata senza prendere atto delle idee filosofiche del nostro Autore.
Ispirandosi a Eraclito, ma sviluppando poi, in modo del tutto autonomo, la teoria dell’armonia degli opposti, Franco asserisce che ogni cosa nello stesso tempo è e non è. L’intero universo è sottoposto a un eterno fluire di forme e la vita richiede contraddizione. Noi stessi siamo e non siamo, perché esistere significare diventare, ossia mutare la propria condizione in un’altra.
Franco ha scritto nel 2001 il saggio “La teoria autocentrica” e nel 2005 ha dato vita, insieme allo scrittore Aldo Onorati e al Sociologo Filippo Ferrara, al Manifesto dell’irrazionalismo sistematico ispirato all’Opera del Maestro Bruno Fabi.
Nella teoria autocentrica, lungi dal porre l’individuo al centro dell’universo, il nostro Autore mette in risalto il dualismo esistente anche all’interno dell’uomo stesso e, soprattutto, evidenzia il valore della creatività. Ricordo di aver letto subito dopo il saggio un documento che mi procurò uno stato di emozione profonda, in esso Franco asseriva che in un mondo destinato a vivere in fotocopia come il nostro, l’Artista o comunque l’uomo creativo, si rivelava l’unico essere intelligente.
Con i suoi assunti egli sovvertiva tutti gli schemi esistenti, si poneva sempre in contrapposizione con le categorie Kantiane, tese a classificare i concetti, a immagazzinarli e renderli fissi, immutabili. Grazie alla sua libera elaborazione dell’armonia dei contrari, che ho sempre considerato rivoluzionaria e che reputo l’unica voce filosofica del nostro secolo, Franco stravolge le comuni visioni del bene e del male, del bello e del brutto, del nero e del bianco, complementari e indispensabili al fine del perpetuarsi della società e dell’uomo stesso.
E se Ver Sacrum sembra una Silloge attraversata, come dice la professoressa Ninnj Di Stefano Busà, prefatrice del libro, da un malessere esistenziale, occorre prendere atto che quel malessere è funzionale al fermentare di nuova vita.
La lirica che apre la raccolta “Autocritica”, che potrebbe intitolarsi “Autoritratto”, in quanto con essa Franco si presenta ai lettori, è già annuncio degli elementi che contraddistinguono la visione di vita dell’Autore. Contiene in sé, infatti, la rabbia dell’uomo legato alla Terra, nell’accezione effettiva del termine, l’uomo contadino che si rivela ai Soloni della cultura, difendendo il proprio “paradiso crocifisso / tra la merda delle ciminiere”.
Ma, al tempo stesso, l’individuo definito selvaggio non riesce a smentire le voci di coloro che lo invitano ad andare in biblioteca. Sa che l’uomo resta prigioniero se non trova il coraggio “di farsi crescere le ali”.
E analizzando il proprio mondo interiore realizza la presenza del dualismo. La lotta, il cammino è in fieri all’interno del suo essere… e non potrebbe essere altrimenti, attenendosi all’armonia dei contrari. Diverse visioni, opposte visioni, si agitano nell’individuo e ognuna tende a prendere il sopravvento sull’altra.
La figura dell’uomo del terzo millennio “senza lavoro, senza dignità” – da “Civiltà pirata” -, permea quasi tutte le liriche di Franco, che analizzando con acume, con versi sublimi e forti i ‘mali di oggi’, non cede mai alla loro inesorabilità.
La scintilla del bene è sempre presente, quale fonte alla quale attingere per consentire all’essere umano di riscattarsi, di nascere nuovo nel campo dove gli avi hanno seminato.
E, a proposito di avi, nell’uomo stesso sono presenti Caino e Abele, e su tale concetto si sofferma nella postfazione Aldo Onorati, grande esponente della nostra letteratura, che ha visto crescere Franco e ha seguito passo dopo passo l’evolversi della teoria autocentrica e della sua potenza versificatrice.
Dunque, nell’uomo stesso esiste anche lo scontro tra Caino e Abele … che un tempo si innestavano alla salutare pianta cresciuta nel paradiso, prima che il bene e il male ivi sorgessero, non ancora divisi– cito da Onorati -.
Dunque esistono i primordi; esiste Adamo nel giardino dell’Eden, definito “un contadino / che seminò cultura nella Terra, / aprendo solchi d’amore / con ferite / da cui zampillò il latte della vita” - versi tratti dalla lirica “La fuga di Adamo”-.
Oggi quell’Adamo, quel figlio della terra, è divenuto clone di se stesso, e “versa il seme nero della sua follia razionale”.
Commentare versi di tale vitalità verbale e di tanta potenza espressiva, mi sembra superfluo…
E la vicenda di Adamo, inizio della storia dell’umanità, ci induce a riflettere anche sul modo di intendere il concetto di Fede del nostro Autore. Una fede che non viene mai rinnegata in nome della ragione, anzi, trova la sua ragion d’essere nel valore nuovo che Franco attribuisce all’irrazionalità.
La fede del nostro Autore, lontana dai dogmatismi, dagli assunti delle autorità ecclesiastiche, è di purezza incontaminata, disarmante.
Gli schemi Kantiani saltano in virtù del trionfo dell’irrazionalismo e la fede, punto focale di tale concezione, permea molte delle liriche. La si riscontra in “Disse la madre al figlio”, ne “Il re messianico”,in “Trialità”, tanto per citarne alcune, ma desidero soffermarmi in particolar modo sulla lirica che dà il titolo alla Silloge, che è senz’altro la più rappresentativa del messaggio che Franco intende trasmettere con la sua Opera.
Il “Ver Sacrum” in latino era la Primavera Sacra, una ricorrenza rituale di origine italica, praticata poi dai diversi popoli dell’Italia antica. Veniva celebrata in occasione di calamità o momenti difficili e consisteva nell’offerta agli Dei dei primogeniti nati dal primo marzo al primo giugno della seguente primavera.
Il Ver Sacrum, nel caso del nostro Franco è inteso come rinascita, come rigenerazione e rappresenta la speranza di salvezza che arde sotto la cenere “di queste tombe / che l’inverno ha demolito”.
La lirica termina in una sorta di crescendo rossiniano, con versi fedeli al ver sacrum, ovvero : “ci cresceranno le ali e chissà se saremo all’altezza dell’amore”.
Franco nella raccolta non si astiene dal dare corpo ai suoi assiomi filosofici anche scrivendo una “Lettera a Kant”, lirica nella quale, con una sorta di tenerezza, si rivolge a ‘Emanuele’ Kant e intona un inno all’irrazionalismo, spiegando quanto ‘l’inseità sia inconoscibile’, ovvero quanto sia impossibile sondare l’imo, la profondità dell’animo umano.
“In me il rombo della bufera / ed il mandorlo in fiore, / in me il canto delle cicale / e il ritornello di grilli e rane” – tratti da “Lettera a Kant”-
Versi ricchi di allitterazioni e di espressioni vivide, esaltanti, che riconciliano l’uomo con la natura madre – benigna.
Le barriere ideologiche da abbattere, secondo il nostro Poeta – Filosofo sono tante. Franco mette in risalto il valore della mitopoiesi, della creazione di miti da parte dello spirito umano e del recupero degli stessi, che sono tutt’altro che leggende o vicende favolistiche, come vengono spesso, per non dire sempre, rappresentati. Il mito è all’origine della vita, non va confusa con la mitologia ed è fondamentale per la teoria dell’armonia dei contrari.
E’ il mito a “recuperare le fate, colorare il cielo di nuove albe ed arie adamantine”, anche se poi, in linea con l’armonia dei contrari: “tramonti infuocati / dissangueranno i cieli / e tenebre ingoieranno ogni stupore”- tratti dalla magnifica lirica “Aquiloni”-.
E scendendo sul piano squisitamente personale, visto che non presumo di essere una critica letteraria, ma un’ammiratrice autentica e un’amica antica di Franco, vorrei trascendere gli ulteriori numerosi aspetti filosofici e dire della Silloge Ver Sacrum, andando a fil di cuore.
Le poesie del testo sono ‘ispirate’ nell’accezione pura del termine, ovvero dominate da fervore creativo, da stato di improvvisa, brillante intuizione.
Franco, ascoltando i recensori che in occasioni private parlano dei suoi versi cogliendo assonanze, endecasillabi, enjambement, artifici fonetici, resta spesso stupito, sorride e chiede con candore: “Ho scritto tutto questo?”… aggiungendo: “non me ne sono reso conto”.
Ascoltandolo esprimersi in questo modo ho colto l’Uomo e l’essenza della sua grandezza. Ho compreso il significato profondo del termine Poeta. Sono consapevole di quanto il mio Amico sia padrone dell’arte del versificare, ma sono altrettanto consapevole di quanto il suo comporre sia caratterizzato da purezza assoluta. Franco non è un erudito, uno studioso da tavolino. Quando indossa i panni del Poeta, che ama più degli altri, va in catarsi e crea… per poi rifinire, com’è ovvio che sia, ma senza studiare il contenuto delle Opere, seguendo l’istinto, la passione.
E, legandomi al concetto di passione, mi sposto su un terreno che mi attrae in modo irresistibile.
Franco sa bene quanto io sia trafitta, come la notte dalla luna, dai suoi versi d’amore. Versi sanguigni, carnali, suadenti, di erotismo sublimato. Versi di un uomo che si perde nell’universo femminile, senza assorbirne il ‘femminino’. Nel perenne gioco dell’armonia dei contrari il nostro Autore si rapporta alla donna senza succhiarne l’essenza, rimanendo altro, lasciando che si perpetui la vicenda dell’Eden, che Eva resti “mia carne scissa da me” e “bianco mistero d’armonia”- versi tratti da “Buongiorno”. Nella stessa lirica l’Autore definisce la donna: “Volubile teatro delle nuvole, / patria del vento e del sole”.
Quanti echi nerudiani ho ascoltato rileggendo “Amarti è perderti”, straordinaria ode d’amore alla donna idealizzata e resa carne e sangue al tempo stesso. Metafore ardite si succedono: “Prendo i tuoi fianchi argentei / e il roseo grappolo dei seni…”
A livello stilistico la metafora, paragonabile a una similitudine abbreviata, è la figura retorica prediletta da Franco. La adotta senza sconfinare nelle forme ermetiche, senza oscurare la luce vibrante dei versi. Direi che riesce a scegliere espressioni che coinvolgono e spesso sconvolgono il lettore senza arrampicarsi sui muri dell’impossibile.
E recupera la categoria del timbro, tanto cara a Neruda, una categoria dell’estetica classica, di cui troppi autori rifiutano di accettare l’importanza. Il timbro consente di cambiare il ritmo all’interno di una stessa poesia, di rendere i versi ricchi di rara musicalità.
Concluderei asserendo che questo testo è l’Opera con la cui sommità Franco dà del tu al Cielo.

[Maria Rizzi]

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