IL VER SACRUM DI FRANCO CAMPEGIANI
Ver sacrum - questo il titolo della raccolta che Franco Campegiani dà alle stampe, per i tipi delle Edizioni Tracce, nella collana “Magister” diretta da Ninnj Di Stefano Busà - è un testo poetico che definirei sui generis, con nessuna intenzione però - tengo a precisarlo - d’ordine sistematico, bensì per mettere in luce quella che, a mio parere, va considerata la sua prerogativa: trasmettere al lettore, con l’aiuto dei versi, il processo, in atto, della ricerca interiore di una propria, originale e realistica visione del mondo.
Ritengo dunque opportuno, prima ancora di dire la mia e fiducioso di fornire la migliore premessa, lasciare la parola alla poesia e, più precisamente, alla lirica che - ne sono convinto - non a caso l’autore ha voluto in apertura come suo, inconfondibile biglietto da visita:
AUTOCRITICACuocevo la pasta senza salenella pila da voi abbandonatae, vestito della miseria degli avi,proprio me venivate ad insultaremeretrici sazie di caviale.Non è altro un contadino, dicevate,che uno sporco parassita come un altro.“Pezzi di imbecilli”, rispondevo,“ridatemi il giardino primordialese vi fa schifo quest’orto ritagliato,questo glorioso orto rattoppatoquesto paradiso crocifissotra la merda delle ciminiere!”.“Cultura è libertà”, rispondevate.“Ma se non ho i soldi per la Treccani?”.“Puoi andare in biblioteca”, dicevate,ed io mi spellavocome mi spello tuttora le manisu quel metro quadro di terrache alla fine mi seppellirà.Dicevate che ero selvaggioche facevo confusione,che lo stato brado è patriadella più fosca schiavitù. . .Ora lo so che in parte è vero.Dovunque l’uomo è prigionierose non si fa crescere le ali,se non spezza gli steccatiche pone innanzi a sé.Fuori dall’eden primordialeio sono un contadino innaturale,un borghese, in fondo rovesciato,un pallido selvaggio di città.Ma il giardino, ora lo so, è sempre qua.Cultura ed inculturanon sono la sua strada.La strada:un impervio cammino dentro me.
Bene: come si presenta il poeta? Facendo autocritica: che non vuol dire accusare se stesso ma neppure discolparsi; significa, invece, prendere coscienza di come stanno le cose e, soprattutto, consapevolezza del duro, ma necessario e affascinante, viaggio della sfida esistenziale.
Sul suo biglietto da visita non troveremo, allora, epiteti altisonanti: al contrario, vi scopriremo “il nome di Nessuno” (con l’iniziale maiuscola: come si evince dalla lettura di pag. 26), di quell’“eterno combattente” che “destato da un sogno vanaglorioso”, fa tornare in mente Ulisse e la sua fuga verso la libertà.
C’è da chiedersi, tuttavia: da cosa vuole affrancarsi il nostro umile condottiero? La risposta non tarda ad arrivare: “dalle illusioni . . . / di queste craniche prigioni”, scrive in chiusura della pagina suddetta, intendendo con ciò la più subdola delle schiavitù: quella che fa dipendere l’indipendenza dell’uomo dall’arbitrio della ragione; oggi più che mai - è sotto gli occhi di tutti - assurta a ruolo di dea ed erroneamente identificata (vedi l’esasperazione della tecnologia) in una straordinaria ed irripetibile occasione d’emancipazione.
Forse - sembra dirci Campegiani - sarebbe utile rivedere queste posizioni: senza demonizzare, però, per non finire (come spesso è accaduto nella storia dell’umanità) con il cadere nel medesimo equivoco che si vuole superare. Parafrasandolo: se non imparerà a farsi crescere le ali, ogni cielo risulterà troppo alto per il volo dell’uomo.
Così, bisogna apprendere a volare. Ma resteranno profondamente delusi coloro che crederanno di trovare fra queste pagine la formula risolutiva; per un semplicissimo motivo: quella formula non c’è, non esiste. C’è, piuttosto, una più vera e più grande prospettiva; e saranno ancora i versi, non io, a darne la riprova. Da Disse la madre al figlio: “Questo mondo non è come speravi. / . . . . / Fa’ scorta, bimbo mio, della tua fede, / del gioco costruttivo / e cresci nel mistero da cui vieni, / nell’azzurro di quel mondo / che hai goduto finora a piene mani . . .”, ai quali voglio aggiungere soltanto un breve ma significativo pensiero tratto dalle riflessioni postfative di Aldo Onorati: “il mistero da cui l’uomo proviene ordina categoricamente di crescere in esso per essere in esso vivamente assorbito . . .”.
A me sembra che l’ottica sia totalmente rovesciata: più che il bimbo, è la madre a cercare nel figlio quel coraggio che, come Natura vuole, gli restituirà con il proprio amore. Perché ciò avvenga è necessario tuttavia che, prima, s’adempia l’invocazione che il Nostro - in un verso memorabile - mette in bocca alla genitrice: “E colma questo grembo dei tuoi cieli”, dice la mamma alla sua creatura.
È maturato il momento di capire in quale terreno affonda le radici questa poetica e, dunque, la fede di Franco Campegiani, “una fede non urlata, ma palese, non ecclesiale né ecumenica ma generatrice - scrive la Busà - di un pensiero dell’oltre . . .”.
Di nuovo, è il poeta stesso a fare chiarezza: “E’ un fuoco di terra il mio dio. / Dalla caverna mi chiama / con scosse telluriche, / . . . . // E sta con la vergine luna, / colmo il calice / dell’argenteo suo sangue.”. Già dagli incipit delle prime due strofe di Duende (da cui sono tratti i versi citati) è possibile calarsi nella dimensione di un credo che esula, però, e parimenti, sia dal dogmatismo che dal panteismo per appropriarsi, meglio, riappropriarsi della sua integrità, della sua interezza.
Provo a spiegarmi: il dio (questa volta con la minuscola), al quale viene fatto riferimento, non è né un principio indiscutibile né una verità rivelata: classificazioni, queste, che ricondurrebbero inevitabilmente all’angolazione di un punto di vista fazioso e deleterio; no - mi ripeto - il dio, di cui qui si parla, è un’entità comunque spirituale ma complessivamente considerata.
“L’Essere è duale sempre - si legge nel risvolto di prima di copertina -. Non c’è nero senza bianco, né notte senza giorno, né estate senza inverno.”, e ancora: “La negazione dell’Essere è la zolla in cui si radica la sua stessa affermazione. E viceversa.”.
L’ontologia, sottesa al pensiero appena espresso, merita un approfondimento particolare in quanto fondamento dello stesso Ver sacrum in cui viene riposta l’ultima ma immortale speranza. È la legge dell’equilibrio universale: quell’armonia dei contrari nella quale - lo abbiamo ascoltato - tutto rientra, e l’opposto di tutto; l’assoluto come il relativo. Non solo, ma fuori dallo stato naturale (permettetemi di usare l’aggettivo che meglio, forse, lo identifica), fuori da quella condizione - dicevo - nascono le anomalie, le problematiche, le contraddizioni individuali e, di conseguenza, collettive che assillano le società di ogni luogo e di ogni tempo.
L’albero del bene e del male, dai frutti “non ancora divisi”, quando Adamo dimorava “con un piede nell’eden . . . / e un altro fuori” entrando, così, nell’unico modo possibile, ad essere parte dell’armonico caos della vita; quell’albero proibito perché non fosse mai spezzata la giusta proporzione, diviene simbolo di sanità e dunque di salvezza. “Ora Adamo sta uscendo / anche con l’altro piede” - scrive a pag. 19 - e non stringe più nel pugno il seme fecondo con cui curare le “ferite dei solchi d’amore” da lui stesso aperte nel seno della terra ma quello “nero / della sua follia razionale”.
Si badi, però, “anche la decadenza ha un ruolo da svolgere: (esorto il lettore a riflettere ancora su ciò che si dice nel sopraccitato risvolto) quello di preparare nel suo notturno grembo le future stagioni aurorali dell’uomo e del mito.”.
E vi chiedo: siete davvero a conoscenza di una fede più profonda di questa? Io me lo sono domandato, e mi sono risposto di no. Poi, conscio di vivere il tempo delle tenebre, ho voluto unire la mia speranza ad un’umile preghiera: quella che - con una richiesta di condanna e, insieme, di perdono - il caro amico rivolge alla Terra concludendo l’opera: “Non avere pietà / di questo tuo traditore. / Morirò straziato / con tutti i miei simili, / a loro appartengo ed è loro / questo sangue di figlio degenere / . . . . / Luminosa dea non avere pietà, / tu che azzurra in eterno vivrai.”.
Prendo commiato tentando di colmare una lacuna: non ho parlato dell’aspetto formale perché ritenevo essenziali i contenuti, la novità del messaggio di questa poesia; nondimeno, però, invito caldamente ad assaporare la lettura de Il male d’oggi (pag. 16): estrema sintesi tematico-stilistica di un autentico capolavoro.
Sandro Angelucci
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